“Perché le nazioni falliscono” è un recente libro di Dron Acemoglu e James Robinson, rispettivamente economista e politologo, che hanno passato alcuni anni a studiare decine di paesi in tutto il mondo facendo un’interessante scoperta: è la solidità delle istituzioni politiche ed economiche liberali a determinare il successo di un paese.
I due smontano l’idea che sia importante il fattore geografico per cui più si scende a sud più cala la produttività (nel nostro emisfero) e ridimensionano il ruolo della cultura e della religione nello sviluppo del capitalismo: entrambi assunti molto radicati. Quello che conta invece è la “governance”: un paese si mantiene prospero finché l’attività di governo, ovvero quella di esprimere politiche, prendere decisioni, assumere responsabilità all’interno di processi democratici, funziona.
Acemoglu e Robinson distinguono poi tra istituzioni “estrattive” e “inclusive”: le prime servono a ristrette élites per accaparrarsi il reddito e le ricchezze prodotte nel Paese, al contrario le seconde consentono ad ampie fasce di popolazione di accedere alla ricchezza o al potere. Queste ultime funzionano solo se sono sorrette da una solida “poliarchia”, ovvero da una pluralità di poteri diffusi nella società: questo ci suggerisce che uno dei segreti dello sviluppo economico si nasconda in un effettivo pluralismo sociale.
Per far ciò il sistema complesso formato dalle istituzioni di un paese deve essere coerente e governabile, in modo da potere esprimere il massimo dell’inclusività. Il modello è quello dell’equilibrio dei poteri, detto anche dei pesi e contrappesi che dovrebbe essere applicato sia in senso verticale che in senso orizzontale. Esecutivo, legislativo e giudiziario devono essere separati perché in questo modo si evita la concentrazione di potere nelle mani di uno e si garantisce un sistema di controllo reciproco tra le diverse istituzioni ma lo stesso schema vale anche per le autonomie locali: funziona un sistema fatto da istituzioni forti che agiscano in contrasto di interessi tra di loro per evitare che una prenda il sopravvento sull’altra.
Nel caso italiano questo significa che non è una buona idea azzardarsi ad affastellare riforme istituzionali in tempi di emergenza: la struttura del paese va modificata con cautela, con calma e grande attenzione (potremmo chiamarla piattaforma Onida-Zagrebelsky). Se risulta condivisibile la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie che possa funzionare da punto di raccordo e di compensazione tra istituzioni nazionali e regionali, ha poco senso invece privarsi dell’istituzione del Presidente della Repubblica di garanzia come delineato dalla Costituzione per andare verso un (semi-)presidenzialismo. Oggi il Presidente della Repubblica ha una funzione di riequilibrio preziosa: aumenta o diminuisce la propria influenza sul sistema a seconda dello stato di salute delle altre istituzioni. In caso di elezione diretta invece emergerebbe un potere preponderante rispetto agli altri con rischi per la tenuta del sistema e perderebbe di significato il ruolo del Presidente del Consiglio che diverrebbe sostanzialmente un fantoccio.
“Le persone vanno e vengono ma le istituzioni rimangono”: è una frase che Altiero Spinelli pronunciava sovente mentre cercava di far istituzionalizzare alcune sue idee nel “Progetto di trattato che istituisce l’Unione europea” del 1984. Ora che l’architettura istituzionale immaginata da Spinelli è realtà grazie al Trattato di Lisbona è necessario lavorare sulla natura e sul livello di democrazia delle istituzioni europee. Occorre rafforzare le istituzioni federali, ovvero il Parlamento eletto a suffragio universale e la Commissione che deve sempre più funzionare come governo dell’Unione con un bilancio significativo e possibilità di emettere debito (EuroBond), mentre è necessario ridimensionare il Consiglio dell’UE ovvero il potere intergovernativo ora dominante come “Camera degli stati” che possa intervenire cioè esclusivamente nella fase legislativa, senza diritto di veto come oggi. Si tratta quindi di definire l’unione politica, affermando il principio di rappresentanza all’interno delle istituzioni: se il voto esprime una maggioranza (di centrosinistra o di centrodestra) le istituzioni la devono riprodurre con maggioranze di governo. A questo proposito un passo avanti sarà fatto nelle prossime elezioni europee per le quali i due maggiori partiti continentali (PSE e PPE) hanno deciso di designare un proprio rappresentante per la guida della Commissione in caso di vittoria: in questo modo si aprirà finalmente uno spazio politico europeo.
A livello mondiale è necessario “democratizzare le globalizzazione” e allora risulta importante la riforma del dell’ONU, in corso oramai da parecchi anni ma che sembra non arrivare mai a compimento per veti incrociati dei membri. Per prima cosa bisognerebbe riformare il Consiglio di Sicurezza Onu dando rappresentanza paritaria a tutti i continenti, (superando la logica dello “status quo” derivato dal post-Seconda Guerra mondiale, eliminando il potere di veto dei membri permanenti) e ampliando i poteri di controllo dell’Assemblea generale. Infine, la cosa forse più importante: è necessario dare voce politica all’opinione pubblica globale. Manca ancora un luogo dove possa esercitarsi il controllo popolare della politica internazionale: un Parlamento mondiale, simbolo e strumento istituzionale di dialogo e decisione di un’umanità che si fa comunità cosmopolita. L’embrione di quello che al momento appare un “progetto utopico” potrebbe essere più realisticamente un’Assemblea parlamentare che integri (per poi progressivamente sostituire) l’Assemblea Generale dell’Onu. Non più gli ambasciatori e i delegati dei governi, come avviene invece per l’Assemblea generale, ma rappresentanti dei cittadini, dunque delle minoranze e non solo delle maggioranze, perché emergano problemi, esigenze e rivendicazioni, oltre ad inedite maggioranze sinora silenti nelle istituzioni internazionali.
In definitiva si tratta di una questione di igiene democratica e cura delle istituzioni: se nel dopoguerra si era portati a dire che la democrazia fosse una conseguenza dello sviluppo economico ora sappiamo che occorre prendersi cura delle istituzioni che sono la garanzia della prosperità del paese (o del continente, del globo) ed occorre farlo nel solco della democrazia perché se le responsabilità sono condivise il sistema complessivo diventa più solido e funziona meglio.