Nei giorni scorsi ha fatto molto discutere l’avvicendamento alla presidenza della Fondazione Museo Richard Ginori di Sesto Fiorentino, deciso dal ministro della Cultura Alessandro Giuli: Tomaso Montanari, il cui mandato era scaduto già lo scorso autunno, è stato sostituito da Marco Corsini, avvocato dello stato e attuale sindaco di Rio nell’Elba. Il clamore mediatico, insolito per una nomina riguardante una fondazione culturale, e certo amplificato dalla notorietà di Montanari, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, storico dell’arte di grande valore (e specialista di quel barocco che alimenta buona parte delle collezioni del museo Ginori, tra i più importanti al mondo per la storia della porcellana), ma anche intellettuale impegnato e apprezzato ben al di fuori della sua cerchia disciplinare, si deve soprattutto a una questione di metodo e a una di merito, entrambe collegate. In casi del genere la forma coincide con la sostanza, ma la sostanza finisce per avere una tenuta più lunga. Per questo è importante rifletterci a freddo. E per questo il caso Ginori è una sorta di paradigma.
Il presidente della Fondazione Ginori viene nominato dal Ministro della Cultura, sentiti il presidente della Regione Toscana e il sindaco di Sesto Fiorentino. Un passaggio meramente diplomatico (chi decide è il ministro, non una concertazione) ma indicativo di una buona politica, visto che il rapporto con il territorio rappresenta un valore fondamentale di istituzioni come questa. Questa volta il passaggio non c’è stato, e ne sono scaturite reazioni di netta contrarietà da parte di tutti gli interessati. Tanto più che il ministro aveva fornito, ancora a fine 2024, ampie rassicurazioni a Montanari circa la sua riconferma. Intendiamoci: è nell’ordine delle cose che un ministro possa ripensarci, e quindi nominare una figura che ritiene più adatta a un certo ruolo, ovvero più vicina alla sua visione politica. L’iniziativa di Giuli è dunque sgarbata ma non illegittima. Non possiamo ovviamente che condividere con Montanari una calorosa solidarietà, ma crediamo difficile che il ministro possa tornare sui suoi passi, anche a fronte di proteste vibranti come quelle che sono divampate appena la notizia si è diffusa. Il decisionismo assertivo, anzi, mira proprio a intimidire gli interlocutori, perché non si ferma davanti a nulla. E quindi comunica una falsa impressione di efficienza.
Quel che inquieta non è che il ministro abbia cambiato idea, ma che non abbia ritenuto di dover argomentare le ragioni del cambiamento. Una scelta così delicata deve discendere da una visione politica larga e articolata dei rapporti del museo con il territorio e con il Paese, e dunque richiede una riflessione ponderata che è dovere di chi governa condividere con l’opinione pubblica. Sempre che la visione ci sia. L’innesco della mancata riconferma sembra invece da riconoscere in un pretesto formale che di per sé non ha rilevanza alcuna. Il presidente non dovrebbe avere carichi pendenti, ma recentemente Montanari è stato querelato dal ministro Francesco Lollobrigida per alcune parole forti sul concetto di “sostituzione etnica” da cui il ministro si era sentito diffamato. Tanto sarebbe bastato per far uscire lo studioso dalla partita. Ribadito che una querela non è una condanna, e che qui si tratta semmai di reati d’opinione, è bizzarro che tanto rigore venga applicato al presidente di un museo mentre ministri e sottosegretari rinviati a giudizio o addirittura condannati per cose non proprio irrilevanti non pensino neppure di dimettersi. Lecito domandarsi se Giuli non abbia dovuto cedere a pressioni di una parte consistente (o influente) della maggioranza di destra che vede in Montanari un personaggio scomodo, se non addirittura un nemico da abbattere. In tal senso, togliergli un incarico importante (e di nomina ministeriale) è al tempo stesso una rappresaglia e un monito al dissenso. Se vuoi conservare una poltrona (in questo caso, peraltro, affatto gratuita), insomma, ti devi allineare. Se non ti allinei, resti fuori. Un metodo squadrista elevato a prassi di governo.
La questione di merito è tuttavia ancora più inquietante. Il ruolo di presidente di una fondazione museale è soprattutto politico e gestionale, ma non è vero che una fondazione valga l’altra, perché i musei sono istituzioni (e “opere pubbliche”) affatto particolari. Montanari è uno storico dell’arte che ha piena contezza di cosa un museo sia, voglia e debba essere; e soprattutto aveva avviato un percorso complicato di recupero, adeguamento e riallestimento di un museo, ricordiamolo, chiuso dal 2013, salvatosi perché acquisito dallo stato: solo ora si comincia a intravedere la conclusione della parabola, perché il 2026 dovrebbe essere l’anno della riapertura. Forse Giuli ha ritenuto che per chiudere il cerchio ci volesse una figura già collaudata nella gestione di grandi opere, con vasta esperienza giuridica messa a frutto sia nel ruolo di commissario straordinario (in Veneto, ad esempio, per l’autostrada Pedemontana, giunta Zaia) che di assessore (a Venezia, giunta Costa, e Roma, giunta Alemanno). E qui sta il punto. Dal vasto e importante curriculum di Corsini non risulta una sola esperienza in un’istituzione culturale. Risulta invece una fedeltà a una linea politica che evidentemente deve avere prevalso su tutto il resto. Come del resto fin dalla fase di composizione del governo in carica, per cui la competenza sembra essere stata nella maggior parte dei casi un fastidioso optional, e l’appartenenza (se non vogliamo chiamarla fedeltà al capo) un valore dirimente e quasi irrinunciabile. Ma siamo proprio sicuri, anche a prescindere dal colore politico, che governare un’autostrada e governare un museo sia esattamente la stessa cosa?
Il Governo Meloni non ha mai fatto mistero di perseguire una politica culturale fortemente nazionalista e identitaria, ma di fatto pretende di governare il patrimonio artistico più importante del mondo con l’antropologia di un clan ristretto di amici e parenti. E quand’anche il clan riuscisse a selezionare solo competenti indiscussi, dovrebbe comunque lasciare spazio per sviluppare idee diverse, per maturare quel confronto che fa progredire la conoscenza come la politica, e che serve a rappresentare un’idea di cittadinanza. La selezione della classe dirigente – politica e tecnica – è dunque un tema sul quale, oltre il caso specifico, dovremo continuare a ragionare e sul quale dovremo essere molto esigenti. Un grande tema del presente, gravido di ipoteche sul futuro (anche perché questa classe bisogna continuare a formarla). Che tuttavia sembra non stare in nessuna agenda politica, stranamente nemmeno a sinistra.
Nello scorso fine settimana purtroppo Sesto e la sua piana hanno fatto notizia anche e soprattutto per le conseguenze delle devastanti piogge che hanno provocato esondazioni, frane, allagamenti. Un territorio fragile ha bisogno di competenze, a tutti i livelli, che siano capaci di leggere storicamente il territorio, nelle sue complesse stratificazioni, per farne oggetto di una buona politica. Un museo di porcellane non ci protegge automaticamente dalle calamità naturali, ma ci aiuta a coltivare la sensibilità per il patrimonio. E ci aiuta a pensare storicamente: questo sì che giova alle buone pratiche del buon governo. Siccome le istituzioni culturali devono essere matrici primarie di cittadinanza, diritti, libertà e dunque buon governo, non sono irrilevanti le persone che le guidano. Per questo la loro scelta deve avvenire in modo trasparente, dandone conto all’opinione pubblica. Che non può essere ridotta al ruolo di spettatrice impotente e passiva, ma deve essere parte fondamentale di un processo partecipativo di cui i luoghi della cultura sono laboratori fondamentali.
Fulvio Cervini
Possibile Firenze — Comitato Piero Calamandrei