Meno di mezz’ora.
Questo è stato il tempo che il Consiglio ha ritenuto sufficiente per discutere di immigrazione nelle due giornate del vertice europeo del 24 e 25 giugno. Meno di mezz’ora per discutere di tutte le rotte migratorie con la solita stremata retorica di sicurezza e flussi irregolari. “Gli sviluppi su alcune rotte destano preoccupazione e richiedono una vigilanza costante e azioni urgenti” afferma il consiglio. Peccato che la preoccupazione sia legata agli arrivi degli irregolari e peccato che gli irregolari siano tali a causa dell’implementazione di politiche securitarie ai confini e dell’impossibilità di ottenere mezzi d’accesso legali per entrare nell’UE. E comunque, in fin dei conti meno di mezz’ora basta per ribadire l’ormai costante oscenità dell’esternalizzazione delle frontiere. Che poi è l’esternalizzazione della responsabilità.
La politica europea sull’immigrazione è un costante tentativo di sdoganare la responsabilità dellə migrantə, rifugiatə e richiedenti asilo ai paesi di transito, paesi con nessuna o pochissime garanzie sui diritti umani figurarsi i diritti dellə rifugiatə. Per cui non una parola sui respingimenti illegali, non una parola sulla violazione del principio di non-refoulement, non un cenno ai centri di detenzione. D’altronde da una comunità che ritiene gli accordi con la Turchia un esempio di best practice non c’era molto da aspettarsi. E ancora una volta, durante la conferenza stampa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ribadisce l’impegno nella cooperazione con la Turchia e altri partner come la Giordania e il Libano per il trattenimento dei rifugiati siriani e non solo. Infatti, saranno tre miliardi di euro i fondi destinati alla Turchia fino al 2024 in supporto al controllo delle frontiere, soprattutto quella a est. Dice la presidente von der Leyen che però questo sarà un budget con una dimensione socioeconomica. Cosa questo voglia dire non ci è dato sapere. Sappiamo invece quali sono le condizioni nei campi di detenzione per uomini, donne e bambini che non hanno commesso alcun reato. I campi di detenzione sono luoghi di morte, di sospensione della legge e di tutta una serie di garanzie e diritti. Diritti e garanzie che di fatto l’Europa sta incoraggiando a violare. Un’altra questione che forse sarebbe stato il caso sollevare in quella mezz’ora è il destinare fondi ad uno stato come la Turchia che proprio pochi giorni fa ha ribadito con fermezza la sua intenzione di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul. Ma per i leaders europei non è importante discutere del destino di tutte le donne migranti che si trovano e si troveranno in Turchia. La convenzione di Istanbul è un modo per sfuggire alla violenza per le donne migranti. Infatti, la Convenzione stabilisce di considerare la violenza nelle procedure per l’ottenimento dell’asilo politico e ribadisce l’obbligo di non-refoulement delle donne oggetto di violenza. Per cui se l’intenzione è quella di preservare le vite dellə migrantə, come convenuto dal Consiglio, continuare a finanziare la Turchia e altri paesi di transito non è sicuramente la soluzione. Se le politiche migratorie hanno l’obiettivo dichiarato di aiutare le persone più vulnerabili, siamo ben lontani dal raggiungere suddetto obiettivo. Se invece il fine è quello di scoraggiare e limitare lə migrantə, piuttosto che sostenerlə o aderire alla Convenzione sui rifugiati allora i risultati generalmente soddisfano gli obiettivi. E ne è la prova il fatto che nelle conclusioni approvate dal Consiglio non sia menzionata neanche la riforma del regolamento di Dublino e la questione della redistribuzione də migrantə. Perché ora la partita si è spostata fuori dalle porte UE.
Jessi Kume