Il mondo è alle prese con la lotta contro il diffondersi del coronavirus, e con l’emergenza sanitaria che il contagio presenta. Tutto questo, apparentemente, ha poco o nulla a che vedere con le primarie del Partito Democratico americano e con la sfida tra Sanders e Biden. Apparentemente. Facciamo un passo indietro. Venerdì scorso il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha dato il via libera a un provvedimento del Congresso che sancisce lo stanziamento di ben 8,3 miliardi di dollari nella lotta al COVID-19. Di questi, ben 300 milioni saranno destinati al National Institute of Health, uno dei principali enti pubblici di ricerca statunitensi, per lo sviluppo di un vaccino contro il coronavirus. Si tratta di uno sforzo imponente, ma non certo senza precedenti: dal 2004 ad oggi il governo USA ha stanziato circa un miliardo di dollari per lo sviluppo di terapie e vaccini contro il virus Ebola, solo per fare un esempio recente relativo a un’altra epidemia virale.
Sono in molti a domandarsi, però, se siano i contribuenti americani a trarre i maggiori benefici da questi imponenti investimenti, o piuttosto le industrie farmaceutiche.
In un’audizione congressuale tenutasi il 26 febbraio, interrogato dalla deputata Jan Schakowsky proprio su questo tema, il Segretario alla Salute americano Alex Azar ha dichiarato che “Stiamo lavorando per rendere il prezzo del vaccino accettabile, ma non possiamo controllare i prezzi perché abbiamo bisogno degli investimenti privati”.
Esatto, avete letto bene. A fronte di un investimento di 300 milioni di dollari, il governo americano di dichiara di non avere alcun controllo sul prezzo di un futuro vaccino sul coronavirus. Il provvedimento del Congresso dà preciso mandato al Segretario Azar su questo punto, ma la verità è che, al momento, la legge dà ragione a lui.
Non è sempre stato così.
Nel 1989 il Congresso americano, allora a maggioranza democratica, approvò una legge che dava all’NIH il potere di decidere il prezzo dei farmaci sviluppati a partire da fondi pubblici. Il provvedimento era nato in seguito allo scandalo legato all’AZT, al tempo l’unico farmaco disponibile per il trattamento dell’AIDS, il cui prezzo era arrivato a 10.000 dollari l’anno grazie alle scellerate politiche di aumento del prezzo da parte della casa farmaceutica proprietaria del brevetto, brevetto che era nato però quasi vent’anni prima grazie a fondi pubblici per la ricerca contro il cancro. Il Congresso dapprima obbligò la Burroughs-Wellcome a far scendere il prezzo alla comunque astronomica cifra 8.000 dollari l’anno, e poi introdusse la legge di cui sopra, per evitare che situazioni come questa si ripetessero. Nel 1995 il Congresso tornò in mano ai repubblicani, che presto eliminarono questa legge, sostenendo quanto detto da Azar dieci giorni fa, e cioè che il controllo dei prezzi farebbe fuggire gli investitori privati.
Sono in molti a sostenere che questo non sia vero, e anzi che il settore privato sia al contrario sostanzialmente dipendente dai fondi pubblici per le proprie ricerche, al punto che, secondo uno studio “conservativo” fatto da una lobby afferente all’industria farmaceutica stessa, tutti i 210 brevetti farmaceutici approvati tra il 2010 e il 2016 negli Stati Uniti hanno ricevuti finanziamenti pubblici, per un valore stimato del 40% del costo di ricerca e sviluppo. Questo non ha impedito alle case farmaceutiche che hanno utilizzato ricercatori e laboratori interamente pagati dai contribuenti americani, di imporre prezzi esorbitanti sui farmaci sviluppati grazie ad essi.
Si può dire, in sostanza, che gli americani paghino i farmaci due volte, la prima con le loro tasse, la seconda, salatissima, in farmacia.
Cosa c’entra tutto questo con le primarie dem? C’entra perché ci fa capire un po’ meglio cosa pensano e da che parte stanno i candidati in campo. Tanto Biden quanto Sanders hanno una lunga carriera politica, sulla quale è giusto che vengano giudicati. Sanders si è da sempre opposto all’abolizione della legge sul controllo dei prezzi dei farmaci. Già nel 1995, da rappresentante indipendente del Congresso per il suo Vermont, lottò per impedire che la legge venisse abolita, ma la forte maggioranza repubblicana andò per la sua strada. Bernie non è uno che demorde, però. Nel 2000 — pur con un Congresso ancora in mano ai repubblicani, alla faccia di quelli che dicono che Bernie sia incapace di fare lavoro di squadra e di far passare le sue proposte — Sanders riuscì a far approvare un emendamento scritto da lui che reintroduceva il cosiddetto reasonable pricing, cioè quanto previsto nell’89 sul controllo dei prezzi. Il medesimo provvedimento venne proposto anche al Senato, ma fu bocciato, non solo dalla maggioranza repubblicana, ma anche da un pezzo consistente dell’opposizione. Tra cui il senatore del Delaware, Joe Biden. Questo nonostante l’allora candidato Presidente dei democratici, Al Gore, si fosse dichiarato a favore dell’emendamento Sanders. Più che alla linea del partito, Biden si dimostrò fedele a quella della lobby del farmaco, come ha purtroppo dimostrato diverse altre volte anche nel corso della presidenza Obama.
La linea di Trump sul tema è nota, a partire dalla nomina a Segretario alla Salute di Alex Azar — ex presidente di una casa farmaceutica tra le responsabili dell’aumento astronomico del prezzo dell’insulina negli USA — fino alla questione dei fondi all’NIH. Nella sua campagna di fortissimi tagli lineari a tutta la spesa socio-sanitaria degli USA, Trump ha curiosamente fatto marcia indietro solo sui fondi all’NIH, l’ente già citato che sovrintende alla ricerca farmaceutica pubblica. Un improvviso ravvedimento? No, semplicemente Big Pharma gli ha fatto “gentilmente” notare che quei fondi pubblici servono a loro per creare nuovi farmaci tagliando enormemente i costi di ricerca e sviluppo e fare enormi profitti grazie a licenze che permettono loro di venderli a prezzi astronomici.
Le elezioni presidenziali del novembre prossimo possono essere un’occasione per gli Stati Uniti di invertire la rotta, anche su questo tema. Siamo sicuri che Biden sia la persona giusta per farlo?