Nel distretto di Chamoli nello stato indiano dell’Uttarakhand, a circa 500 km da New Delhi, un’onda di fango e detriti ha causato decine di vittime, ma molti di più ancora sono i dispersi (fra i quali i molti operai delle centrali idroelettriche), risultato della rottura e conseguente caduta di una parte di ghiacciaio himalayano su uno dei tanti invasi costruiti lungo il fiume Dhauli Ganga del complesso idroelettrico Rishiganga.
Già nel 2013 questa zona fu colpita dallo ‘Tsunami dell’Himalaya’, una violenta alluvione causata dai monsoni che portò via la vita a 6mila persone.
Nonostante la nota fragilità del territorio la costruzione di dighe e centrali idroelettriche è proseguita (l’onda di fango ha colpito durante il suo percorso anche la diga in costruzione di Tapovan Vishnugad). L’Himalaya è una delle zone della Terra che sta soffrendo maggiormente i cambiamenti climatici, sia per quanto riguarda le temperature che per lo stress idrico del Subcontinente. I ghiacciai hanno perso il 25% della loro superficie negli ultimi 40 anni e, negli ultimi venti, la velocità di scioglimento è raddoppiata.
L’India è da qualche anno il terzo consumatore di energia al mondo, dopo Cina e Stati Uniti, sviluppo economico e crescita della popolazione aumentano la fame di energia dell’Elefante indiano, la cui principale fonte per ottenerla resta il carbone (oltre il 60%) e continuerà ad avere un perso molto rilevante anche in futuro anche se questo non ha contribuito a ridurre la povertà energetica delle comunità rurali (rapporto “Beyond coal” pubblicato da centri di ricerca e organizzazioni no-profit).
Il piano governativo per la transizione energetica (rapporto “Financing India’s Clean Energy Transition” del BNEF) ha raccolto tre grandi sfide: garantire l’accesso all’elettricità a 300 milioni di persone che ancora ne sono prive, ridurre l’inquinamento e produrre più energia. Il piano prevedeva l’aumento del 26% all’anno della potenza installata proveniente da fonti rinnovabili. Fra questi si è deciso di puntare sul fotovoltaico e le micro-reti locali per raggiungere anche le zone rurali e sull’idroelettrico.
Anche grazie proprio ai ghiacciai dell’Himalaya l’India può contare su molti grandi fiumi e ha spinto lo sviluppo di gradi progetti idroelettrici: solo nello stato dell’Uttarakhand ci sono 550 dighe e centrali idroelettriche, con altre 152 grandi dighe in fase di progettazione, nell’area colpita ieri ci sono 58 dighe lungo il fiume Dhauli Ganga e i suoi affluenti. Da anni gruppi di ambientalisti locali protestano perché la costruzione di tutte queste dighe ha destabilizzato il già fragile ecosistema della regione.
Dall’indipendenza dagli inglesi ad oggi, in India, secondo il South Asia Network on Dams, Rivers and People, sono stati costruiti oltre 5mila impianti, che hanno causato lo sfollamento di una popolazione stimata tra 25 e 60 milioni di persone.
Due terzi dei ghiacciai indiani si saranno sciolti entro il 2100 (fonte: PRS India) per cui anche la capacità di produrre energia elettrica dall’acqua sarà destinata a ridursi notevolmente. Tutto ciò non ha impedito la costruzione della centrale di Dibang, nello Stato di Arunachal Pradesh, costata circa 3,5 miliardi di euro, con una capacità di 2880 MW, che ha avuto un impatto ambientale considerevole (per la sua realizzazione sono stati tolti di mezzo più di 300mila alberi).
Secondo il South Asia Network on Dams, Rivers and People il 90% degli impianti idroelettrici operativi in India non produce i livelli d’energia promessi in fase di realizzazione. Negli ultimi 20 anni, la dimensione del settore idroelettrico indiano è cresciuta a un ritmo medio del 4,35% all’anno. Nello stesso periodo però il tasso di rendimento è crollato di un quarto. Gli impianti rimangono spesso fermi sia nella stagione monsonica, per l’accumulo di sedimenti, sia in quella secca, a causa dello scarso flusso d’acqua. Le grandi distanze che intercorrono tra i centri di produzione sull’Himalaya e i luoghi di consumo (le megalopoli della grande pianura indiana) fanno si che gran parte dell’energia prodotta si disperda lungo le linee di trasmissione.
Visti questi numeri impietosi si può affermare che se gli studi d’impatto ambientale e il loro monitoraggio fossero affidati ad organizzazioni indipendenti, le esternalità sociali basterebbero a scoraggiare ogni nuovo progetto.
Secondo i politici indiani il giovane Stato dell’Uttarakhand era destinato a trasformarsi nell’Urja Pradesh, lo “Stato dell’energia”. In una regione affetta da una disoccupazione drammatica, le false promesse della politica hanno avuto gioco facile (lprima fra tutte la promessa di garantire il 70% degli impieghi generati dagli impianti idroelettrici alla popolazione locale). Dei 30mila abitanti della valle appena 200 hanno ottenuto un impiego nelle compagnie idroelettriche mentre campi e pascoli sono spariti per sempre.
Lo stress idrico che ha colpito tutta l’area a sud dell’Himalaya lo scorso anno, anche a causa dei degli impianti idroelettrici, ha visto inasprirsi i rapporti col Bhutan e il Bangladesh, che sono a monte e a valle dei grandi fiumi indiani, incluso il già acceso fronte col Pakistan, sulla gestione di una risorsa comune quanto preziosa come l’acqua che si trovano a condividere, tanto da arrivare a schierare dei soldati sui ghiacciai a fare la guardia. L’esempio dell’India sia un riferimento per tutti quelli che saranno chiamati a pianificare e sviluppare la transizione energetica del prossimi decenni: non basta virare verso le fonti rinnovabili, bisogna abbinare la sostenibilità ambientale e tenere conto degli inevitabili mutamenti che il clima ci riserverà e ci sta riservando. Fare la scelta giusta senza inserirla in un piano di lungo respiro potrebbe non solo non bastare ma incluso causare un ulteriore danno.