Questi giorni ci vedono impegnati in una battaglia di grande importanza per il lavoro. Una battaglia che riguarda migliaia di italiani, in particolare donne e giovani. Il governo con la pretesa dell’innovazione nega diritti e sposta l’orologio a dieci anni fa. Noi vogliamo una scelta di cambiamento e di innovazione. E la vogliamo adesso.
La battaglia politica in corso sulla riforma del lavoro deve vederci impegnati, per la sua importanza, con convinzione e con grande generosità.
Non è l’ultima spiaggia, né lo scontro finale, anche se si sentono toni da Armageddon. Il suo esito finale però ci dirà se il nostro paese cambia davvero, se saremo davvero in grado di uscire da una realtà economica e sociale che abbiamo ereditato, in tutta la sua negatività, da un lungo periodo di predominio della destra. E, elemento non secondario, segnerà come tratto distintivo i connotati politici del nostro partito.
L’attenzione generale è rivolta alla questione dell’articolo 18. Dobbiamo ribadire con decisione che non si tratta di un aspetto marginale, che ha un notevole valore simbolico, che è una questione di principio riguardante diritti fondamentali delle persone che lavorano.
Serve una mobilitazione, serve partecipazione e una discussione diffusa, perché su questa materia non vi sia solo una possibilità, quella decisa dal governo, presa dall’alto senza che fosse mai stata annunciata, o scritta in un programma elettorale e votata dai cittadini.
Serve che a partire dal Pd, dalla partecipazione dei territori,
chiediamo di convocare al più presto assemblee pubbliche in circoli e federazioni, dove poter discutere e scegliere.
Serve un’operazione di verità per rispondere agli argomenti fasulli che vengono prodotti in quantità per nascondere quello che motiva in realtà la sua abolizione: abbassare ulteriormente i redditi dei lavoratori, tutti i lavoratori, qualunque forma giuridica abbia la loro subordinazione, che siano o no coperti da quella tutela.
Ma dobbiamo anche avere chiaro che la vera posta in gioco è più alta. E su quella dobbiamo impegnarci. Non si tratta solo di impedire questo passo in avanti sulla via della svalorizzazione del lavoro e dell’impoverimento dei lavoratori: si tratta di invertire la tendenza. Di tornare a valorizzare il lavoro. Quello di tutti. Di restituire dignità a chi affronta quotidianamente la sfida del lavoro e di restituire una speranza a chi vorrebbe affrontarla ma viene respinto ai margini.
Per questo, tra tutte le manipolazioni e le distorsioni che stanno intossicando questa battaglia, quella che dobbiamo respingere con più forza, di argomenti e di passione ideale, è la descrizione di questo campo, del nostro campo, come di una trincea scavata per restare fermi al passato. Perché è invece proprio dal passato che pretendiamo di uscire. Finalmente.
Perché sarebbe ora di disboscare davvero, finalmente, la miriade di contratti atipici, precari, che hanno premiato gli imprenditori più pigri e quelli più imbroglioni. Quelli che anziché investire sulla qualità, sulla novità, sull’originalità, sulla creatività hanno puntato a realizzare qui, nel nostro paese, i costi e le condizioni lavorative dei loro concorrenti delle nazioni emergenti. Quelli che hanno usato le mille opportunità offerte dalla deregulation introdotta dalla destra per restare in quella linea d’ombra che separa il lavoro legale da quello sommerso, fino a quello illegale spesso confinante con la criminalità organizzata.
Si può fare, se il contratto di accesso, a tutele crescenti nei primi due-tre anni (lo abbiamo proposto noi soli, nero su bianco, nella mozione congressuale) è davvero unico, a tempo indeterminato, e sostituisce ogni altra forma anomala.
Così come sarebbe ora di sussidiare con un reddito minimo garantito tutti quelli che cercano lavoro e non solo chi lo ha perso da una azienda coperta dalla Cassa Integrazione o dal contributo di disoccupazione. Si può fare, mettendo ordine nel ginepraio degli ammortizzatori sociali e delle spese per assistenza. E di fronte a processi di innovazione tecnologica che risparmiano lavoro si può imporre il ricorso alla riduzione di orario, in chiave difensiva o, meglio, offensiva e anticipatrice, al posto della Cassa Integrazione, spesso senza neppure il criterio elementare della rotazione.
Insomma, cambiare si deve. Altrimenti continueremo ad avere il mercato del lavoro più ingiusto, meno regolato, meno efficiente e un sistema produttivo con vaste sacche di bassa competitività che deprimono l’insieme della nostra economia.
E lo si deve fare ora. Non dobbiamo proporci un compromesso, una delega che, per rinviare i problemi, dica e non dica. Non potremo cantare vittoria se festeggerà con noi anche chi ha messo la sua firma sulla politica che ora vogliamo cambiare, i Sacconi e i Brunetta, uniti.
Se tutto continuerà come prima, anzi, un po’ peggio (se chi subirà un licenziamento discriminatorio si dovrà accontenare di un risarcimento), saremo venuti meno al compito che insieme avevamo deciso di darci. Non ci sono “ragioni di stato” che possano farci rinunciare alle nostre ragioni. Che possono poggiare sulla forza dei milioni di elettori che hanno votato per il cambiamento. E di quelli, perfino più numerosi, che hanno perso la speranza nel cambiamento e a cui abbiamo il dovere di restituirla con le nostre azioni e la nostra determinazione.
La video intervista di Pippo Civati per il Fatto Quotidiano.