La stagione istituzionale che stiamo vivendo da anni, e di cui adesso si delineano meglio i contorni, è caratterizzata da una forte mutazione materiale della forma di governo della nostra Repubblica. Questa è sempre meno “parlamentare” e sempre più “governistica”, in cui chi detiene il potere esecutivo ha il dominio assoluto della scena politica, mentre quanti rappresentano il potere legislativo (il giudiziario appare salvo, finora) non possono far altro che votare quello che i governanti chiedono, o sarebbe meglio dire, impongono.
La “questione di fiducia” sulla legge elettorale è solo l’ultimo, in ordine temporale, quand’anche il più emergente, piolo di una scala che da tempo s’è preso a discendere. Nei fatti, col richiamo del presidente del Consiglio alla scelta fra la legge elettorale e la fine del Governo, quella questione è già stata posta ai parlamentari di maggioranza, anche se, formalmente, così ancora non è. Renzi, con il suo aut-aut, espone nei termini che gli sono usuali la situazione: o il Parlamento fa quello che io chiedo, o io me ne vado. E con lui, novello Sansone, crolli ogni colonna del tempio e periscano pure tutti i filistei. Poi, alle elezioni, vedremo dove sta la verità.
È un po’ l’invocazione del giudizio del popolo fatta spesso dal più istituzionalmente longevo dei suoi predecessori in epoca repubblicana, la stessa che la sinistra contestava, accusandola di spostare le relazioni della democrazia sul binario obbligato di un referendum, costante e continuo, sulla sua persona divenuta unico centro della politica.
Ma c’è di più nelle pieghe delle riforme che il Parlamento sta licenziando. L’Italicum, per il grosso premio che contiene, per l’indicazione dei capilista bloccati e soprattutto per il doppio turno nazionale, si presenta come un sistema in cui a essere scelto è il capo di un governo, non dei parlamentari. La riforma della Costituzione già approvata in prima lettura dalle due Camere (al netto delle differenze all’articolo 57 fra i due testi, e tenendo presente che “nei” e “dai” non è esattamente la stessa cosa), contiene probabilmente uno dei passaggi migliori di questo cambiamento, de facto e in un certo senso, trattandosi di norma fondante dell’assetto istituzionale, anche de jure, della forma di governo.
L’articolo 67 della Carta in vigore recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Il novellato e disposto dai moderni ri-costituenti dice: “I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato”. Quel “rappresenta” non c’è più. Esteso alla Nazione intera, lo si trova per i soli deputati all’articolo 55, mentre per i senatori è ridotto alla rappresentanza delle sole istituzioni che territoriali, probabilmente ognuno la propria, ma a questo punto non è chiaro chi o cosa rappresenterebbero i senatori di nomina presidenziale, dato che stanno fra quelli che rappresentano i territori ma vengono scelti da chi presiede all’unità nazionale.
Con la limitazione della rappresentanza attuata nella sostanza, mediante il ricorso a voti di fiducia e decreti governativi, e perseguita ora anche nella forma, attraverso la riduzione e la parcellizzazione della sua applicabilità, però, è lecito supporre che vada in crisi, quando non venga addirittura messo del tutto in discussione, l’intero impianto rappresentativo del nostro sistema democratico.
Se nella Costituzione figlia della Resistenza il centro della Repubblica diveniva la rappresentanza delle sue diverse parti e classi, in questa nuova versione frutto della resa alle dinamiche e ai dettami della “governamentalità”, per dirla alla Foucault, il principio e la fine dell’appartato statuale diviene la governabilità. Lì, il controllo del potere era centrale; qui, il Governo diventa il protagonista ab solutus della scena e del campo politico, e quei controlli un impedimento e un blocco illegittimo della sua prerogativa e del proprio diritto a decidere senza intralci conferitigli dalla maggioranza, anche se essa altro non è che la più numerosa delle minoranza, divenuta predominante e numericamente prevalente per gli effetti di un “premio” elettorale.
Non male come trasformazione, nel settantesimo del 25 aprile.