Pochi giorni fa l’inchiesta di Report (Nero come il petrolio) ha scoperchiato il vaso di Pandora del petrolio di contrabbando libico (e non solo) che arriva in Italia. Mentre il governo discuteva della manovra, dei tagli da fare se la previsione di crescita stimata non dovesse trovare riscontro nella realtà e di inceneritori, scopriamo che il mercato del petrolio illegale vale circa 6 miliardi l’anno solo di tasse inevase. Il 30% del petrolio è di origine non controllata, frutto di contrabbando. Un mercato in mano alle milizie libiche, fino a poco tempo fa anche dell’Isis in Siria, e gestito grazie all’intermediazione della malavita e delle mafie di casa nostra. Fino ad arrivare alle pompe bianche e ai grossi gruppi come Q8, Total, Eni, Api e perfino alla Marina militare. Finendo così per finanziare le mafie, il terrorismo, le milizie, i trafficanti di esseri umani.
Il petrolio di Raqqa, pagato in armi, medicinali e denaro all’Isis, transitava attraverso la Turchia potendo così aggirare le regole sulla provenienza (come dimenticare le lunghe code di autobotti immortalate dai satelliti russi che trasportavano petrolio di contrabbando), finiva poi alle compagnie europee a prezzi vantaggiosi. I pm di Brescia con la loro indagine hanno aperto le rogatorie in Turchia per ricostruirne il percorso, del petrolio e del denaro.
Il petrolio libico, invece, dal 2015 al 2017, è transitato per il porto di Augusta (e miscelato anche nei porti di Civitavecchia e Porto Marghera), passando per Malta, finendo nelle pompe italiane, francesi, spagnole e tedesche. La Finanza ha portato alla luce la rete del contrabbando della Maxcom, che riforniva anche la Marina militare, e che si avvaleva della consulenza di uomini legati al clan Santapaola. Dal dossier Onu del 2017 emerge che Malem, il capo di una milizia. è uno dei maggiori contrabbandieri, grazie ai rifornimenti da Zawiya, un importate hub petrolifero, vista anche la facilità con cui riescono a ‘rifornirsi’ dalla raffinerie gestite dalla NOC (National Oil Corporation). Dalla Libia a Malta il petrolio veniva trasbordato in un’altra nave e, magicamente, cambiavano i certificati di origine, in virtù di una legislazione, quella maltese, particolarmente permissiva. Non è un caso che del ruolo di Malta nel contrabbando di petrolio libico avesse parlato, prima di essere assassinata, Daphne Caruana Galizia.
L’UE e i paesi europei interessati dai traffici non se ne sono mai occupati seriamente (la piccola modifica, in tal senso, della missione Sophia non ha dato risultati), perchè l’unico problema di cui hanno discusso è quello del traffico di esseri umani, per bloccare i migranti. Ignorando, o fancendo finta di non vedere un traffico che, oltre a determinare ingenti ammanchi alle casse dello Stato, costituisce uno degli elementi che maggiormente destabilizzano la Libia. Il petrolio è continuato ad entrare liberamente in Italia, non ha trovato i porti chiusi, finchè non è intervenuta la Finanza.
Un fenomeno che da tempo affollava le cronache dei giornali. Nel maggio scorso era la volta della ‘Petrolio connection’ sul gasolio contrabbandato dalla Libia a Porto Marghera. Nel febbraio dello scorso anno già si parlava del report della GdF sulle navi fantasma che trasportavano il petrolio dello Stato Islamico all’Italia. Navi cisterna che staccavano il trasponder per convergere, e trasbordare petrolio clandestino, su una nave madre a largo di Malta. Non è nuova neanche l’indagine per riciclaggio della Procura di Bologna a carico di Bilal Erdogan, figlio del Presidente turco. Accusato anche dai russi di essere il ‘ministro del petrolio di Daesh’.
Quando si tratta di oro nero il nostro Paese (dipendente energeticamente dalla Libia), si ammorbidisce, i diritti umani vengono accantonati, il contrabbando consentito. Ogni governo più o meno legittimo, più o meno democratico, diventa un interlocutore valido, prezioso se ci lascia fare affari. Così il legame fossile che ci lega alla Libia (e all’Egitto), quel cordone ombelicale costituito dal gasdotto Greenstream che attraversa il Mediterraneo per riemergere a Gela, comporterà un’economia di guerra basata sul petrolio in Libia e la violazione dei diritti e delle nostre leggi fondamentali in Italia. Un modo per arrestare questa spirale di ‘dirty oil’ c’è: la riconversione ecologica dell’economia. Ovviamente #primadeldiluvio.
Stefano Artusi