Le piogge si stanno facendo attendere in gran parte del Paese, in Sicilia è stato il gennaio più secco mai registrato. A rischio la campagna cerealicola e non solo, un inverno particolarmente caldo (qualcuno afferma che il 2020 verrà ricordato come l’anno senza inverno) ha portato a fioriture anticipate e allo stato avanzato di gemmazione in molti alberi e, con le prossime brusche discese della colonnina di mercurio, rischia di mettere in ginocchio il settore agricolo che già guardava con apprensione gli invasi e la portata dei corsi d’acqua ridotta del 75% rispetto a alla media nella stesso periodo. Senza contare la ripercussione che le scarse nevicate avranno sui fiumi dell’arco alpino nel corso dei prossimi delicatissimi mesi. Ingenti sono stati i danni causati dalla siccità, dalle alluvioni e dai fenomeni atmosferici estremi agli agricoltori. Un mestiere che è sempre stato ad alto rischio d’impresa ma che, mai come ora, vede questo rischio ricadere quasi esclusivamente sul produttore. I tempi di semina e raccolta ai tempi del collasso climatico variano di continuo, per stare al passo sono richiesti sempre maggiori competenze oltre al supporto della tecnologia, per minimizzare gli sprechi e massimizzare i ricavi.
La crisi dell’agricoltura europea era dietro l’angolo da tempo, posticipata soltanto dalle generose politiche comunitarie che versano ogni anno agli agricoltori 260 euro per ettaro (la cifra aumenta di 115 euro per ettaro se l’agricoltore adotta colture e metodi particolarmente sostenibili, e di altri 50 euro se il proprietario ha meno di 41 anni). La doccia gelata arriva proprio dalla sforbiciata (meno 14%) dei fondi Pac decisi sul quadro finanziario e sui fondi della Pac 2021–2027 proposti dal Consiglio Ue.
Le associazioni di categoria si sono subito chieste come fosse possibile raggiungere gli obiettivi ambiziosi su sostenibilità, clima, sviluppo e occupazione riducendo il livello di spesa agricolo nel prossimo bilancio Ue. Un taglio che solo per l’Italia varrebbe circa 2,7 mld di euro.
La Cia ci ricorda che gli agricoltori saranno fondamentali per un efficace attuazione del Green New Deal europeo. La lotta ai cambiamenti climatici non può che partire dal settore primario, intrecciato ai temi della tutela del territorio e contro il dissesto, oltre allo spopolamento delle aree rurali (e le conseguenti contrapposizioni tra i problemi dei centri e delle periferie).
Ancora prima di vederne gli effetti, è saltato il coperchio dei problemi dell’agricoltura in Europa, è successo in Spagna, inizialmente nella profonda Andalusia, in provincia di Jaen, per poi estendersi a tutte le regioni. Gli agricoltori sono scesi in piazza, hanno bloccato le principali arterie viarie del paese iberico a causa dell’insostenibilità dei prezzi dei prodotti: troppo bassi per sostenere i costi.
Il recente aumento del costo della produzione non è stato bilanciato dall’aumento del prezzo pagato ai produttori, al contrario il prezzo all’origine è in continua riduzione da anni. Cosa significa? Che le olive non vengono raccolte. La provincia di Jaen, che produce un terzo dell’olio d’oliva mondiale, sconta due altri pesanti contraccolpi: i dazi statunitensi e la storica raccolta dello scorso anno (1,8 milioni di tonnellate di olive) che ne hanno fatto crollare il prezzo.
Al netto del problema contingente, la situazione era già calda da tempo a causa del forte squilibrio della catena agroalimentare, con poche imprese della grande distribuzione e dell’industria che controllano tutto e ne stabiliscono il prezzo finale. Con gli agricoltori deboli e indifesi. In un contesto che, come da noi, vede la media distribuzione sparire e la filiera corta e la vendita diretta ridursi a percentuali residuali. I dati pubblicati da COAG sono chiari: le arance vengono pagate 20 centesimi al chilo all’origine e 1,60 al consumo. Lo stesso vale per tutti i prodotti ortofrutticoli del distretto di El Ejido e Almeria, gli agrumeti della Comunidad Valenciana ecc. Per il latte già lo sapete (basta ricordare le proteste degli allevatori sardi del 2019) che non va molto meglio, il prezzo del grano è ai minimi da 30 anni a questa parte. La protesta ha attirato l’attenzione mediatica uscendo dal cono d’ombra in cui sono spesso scivolate le problematiche di questi territori dimenticati. Planas il ministro dell’Agricoltura ha promesso misure urgenti contro le pratiche commerciali sleali e la vendita di prodotti sottocosto (sotto il costo di produzione). I piccoli e medi agricoltori chiedono anche misure che incoraggino l’accorciamento della filiera e la vendita diretta. Una delle principali richieste però non è stata accolta. A gran voce i manifestanti della ‘Protesta del campo’ avevano chiesto al governo di fissare un prezzo minimo per i prodotti. In evidente contrasto con le regole europee sulla concorrenza. La crisi nel settore dell’olio però è diventa una crisi di sistema, va ripensato l’intero comparto. Un settore che più degli altri sta soffrendo i cambiamenti climatici, normativi e del mercato (con la Xylella che incombe). Come dice l’agronomo Alberto Grimelli, grande esperto di olivicoltura, l’extravergine si fa in tutto il mondo e sta diventando una commodity e questa la si compra dove costa meno. In Spagna il prezzo finale che ha fatto partire la protesta sfiora i due euro, in Italia all’ingrosso se ne trovano a 3 euro, in promozione anche a 2,99. In Portogallo siamo a 1,8 euro, in Tunisia costa 90 centesimi. Competere sul prezzo, è evidente, non ha nessun futuro. Puntare, invece, sulla già elevata qualità e sulla biodiversità potrebbe risultare vantaggioso. Così come riunire i piccoli agricolotri in grandi cooperative per aver maggior forza contrattuale con la GDO e per avere le risorse necessarie da investire in comunicazione, marketing, innovazione e sulla tracciabilità del prodotto. In attesa del regolamento 1746 della Commissione Ue che diventerà effettivo dal 2021 e servirà a garantire trasparenza del mercato e a fermare le pratiche sleali.