“Nomen est omen” è una locuzione latina che può essere variamente tradotta ma che letteralmente, significa “il nome è un presagio” o “il destino è nel nome”, e deriva dalla credenza dei Romani che nel nome di una persona fosse indicato il suo destino. Non è detto che questo valga anche per i nomi di strade, ponti e viadotti. Ma nell’ambito del dibattito apertosi a Genova sulla intitolazione del nuovo viadotto sul torrente Polcevera, potrebbe essere una chiave di lettura dirimente. Anzi, la scelta in realtà è anche sul “se” la nuova infrastruttura debba essere necessariamente intitolata a qualcuno o a qualcosa, e perché. Lasciamo quindi aperta, come ha suggerito ‘Italia Nostra’, anche “l’opzione zero” ovvero l’ipotesi che per il viadotto possa esserci “nessuna intitolazione”, e che come accade per questo tipo di infrastrutture, il viadotto debba chiamarsi “semplicemente” viadotto “Polcevera“, prendendo la propria denominazione dalla toponomastica dei luoghi che attraversano o collegano. Una scelta che, forse, meglio si addirebbe anche al mantenimento di un profilo sobrio e rispettoso per la cerimonia del “battesimo” del ricostruendo viadotto, dato che la “contentezza” per questa rinascita, da condividere a tutti i livelli istituzionali, locali e nazionali, insieme alla cittadinanza genovese e non solo, crediamo che non possa (e non debba) non tenere conto del carico di sofferenza e di dolore che resterà indissolubilmente legato alla storia del viadotto, del vecchio e del nuovo: una storia di dolore e di morte che ha strappato agli affetti dei familiari 43 persone, 43 vite spezzate, 43 storie interrotte.
Ma torniamo al “nomen” e al “destino”. I nomi di “Ponte Morandi” o “Ponte delle Condotte” come è stato nel tempo indicato il vecchio viadotto crollato, non derivavano da nessuna ufficiale intitolazione toponomastica dell’opera che ufficialmente, sulle mappe, è sempre e solo stato il Viadotto Polcevera dell’autostrada A7. Le due denominazioni citavano l’impresa costruttrice che si aggiudicò l’appalto, la “Società Italiana per Condotte d’Acqua”, e il geniale e innovativo progettista, l’Ing. Morandi. Nessuna intitolazione ufficiale quindi, ai tempi, né all’impresa, né al progettista, né alla celebrazione di un primato italiano o genovese, né al governo in carica né alle strutture tecniche che seguirono e eseguirono l’opera per quanto ve ne fossero, per i tempi, tutte le ragioni. L’opera infatti, in allora (come adesso), era considerata “innovativa e straordinaria”: un viadotto lungo 1.182 con un’altezza al piano stradale di 45 metri che attraversava il torrente Polcevera tra i quartieri di Sampierdarena e Cornigliano, costruito in tempi tutto sommato brevi (4 anni) grazie al progettista che aveva brevettato un’opera ingegneristica straordinaria per tecniche e tecnologie costruttive, che connetteva la nuova A10 con la A7, strategica per il collegamento viabilistico fra il nord Italia e il sud della Francia oltre a essere il principale asse stradale fra il centro-levante di Genova, scavalcando un vasto parco ferroviario, case e industrie!
Il cantiere iniziato nel 1963 terminò il 31 luglio 1967 e l’inaugurazione si celebrò il successivo 4 settembre alla presenza del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat che definì il nuovo viadotto sul Polcevera «un’opera ardita e immensa», con particolare riferimento alla campata lunga 210 metri (proprio quella compresa fra le pile 10 e 11) che era in allora “la più estesa d’Europa e la seconda del mondo”. Nell’ottica del “nomen est omen” quindi, visto l’infausto destino della struttura precedente che già pochi anni dopo l’inaugurazione rese evidenti le criticità delle ardite tecniche costruttive progettate dall’ing. Morandi, e le evidenti pecche esecutive emerse a seguito del crollo, sarebbero da escludere, in caso di intitolazione del viadotto, sia il nome del progettista (peraltro ancora vivente), sia la ditta costruttrice. Ma, forse, dovremmo anche retrocedere dall’intento e dall’istintivo anelito di celebrare il nuovo “Viadotto Polcevera”, piuttosto tradizionale come impianto costruttivo e disegno, per il “modello realizzativo”: una “gestione commissariale” che per quanto dimostratasi capace di restituire in tempi tutto sommato brevi (2 anni per il suo impianto, per ora non per la sua percorribilità), è però emblema del fallimento e dell’incapacità di gestire il “modello manutentivo” e gestionale che avrebbe dovuto garantire durata e sicurezza della struttura precedente. Per capirci: forse non “portano bene” e sarebbero da evitare troppo roboanti ed entusiastiche celebrazioni di “modelli” realizzativi per nuove infrastrutture, se poi il loro “destino” è lasciato ad inevitabile incuria e deperimento, forse perché ormai, tagliati “i nastri”, politicamente la buona e corretta manutenzione non porta visibilità e consensi a nessuno.
Ma il “non farla” porta inevitabilmente danni e, purtroppo, morte. Le cure manutentive sono il vero nodo fondamentale, le visioni di lungo periodo, i modelli di gestione, non di costruzione, sono la vera sfida, quelle che guardano al bene comune, non alla celebrazione, per quanto giusta e meritata, di un successo proprio o estemporaneo, ma quello che celebra l’attenzione all’altro: perché quei 43 morti, quei familiari, quel giorno o un domani, potremmo essere noi. Porre alla base delle proprie scelte gli altri, guardare all’interesse comune delle persone di oggi e alle future generazioni, con attenzione a quelle più fragili, agli emarginati dal sistema sociale ed economico, agli esclusi dalle cure sanitarie, dal lavoro, dall’istruzione, dalle opportunità: se questo fosse stato il modello, un modello di cura e attenzione costante agli altri, a ciò che ci sta intorno non come mezzo, ma come fine, a traguardare il domani, avremmo evitato l’emergenza e quei 43 morti. L’attuale pandemia ne è un altro acclarato esempio.
“Tutti, in un momento della nostra vita possiamo essere gli altri”
È in questa frase di Rosanna Benzi che troviamo riassunto quello che vorremmo celebrare inaugurando o intitolando il nuovo viadotto Polcevera: un messaggio che è un monito, un invito a ricordare che se tutti coloro che negli anni hanno avuto ruoli gestionali o decisionali che hanno inciso su quel crollo, avessero scelto anche solo per un attimo di pensare agli altri, alle persone comuni, magari con qualche fragilità, quelli che ci passavano sopra o che ci lavoravano o ci vivevano sotto, magari oggi non saremmo qui a discutere sul come e sul se inaugurare e intitolare la nuova infrastruttura. Saremmo intervenuti prima sul Morandi, magari sostituendolo, magari prima che crollasse lui. Pensare che potremmo essere noi gli altri: questo è il modello che ci piacerebbe celebrare e proporre come esempio, quello che impedisce di arrivare all’emergenza, perché pensare agli altri significa fare attenzione e prendersi cura del bene comune e dei beni comuni, intervenire prima che accada il disastro, perché questo deve imparare la nostra città, la nostra regione, la nostra nazione, l’Europa, il mondo; questo sarebbe il modello da celebrare che servirebbe ai nostri territori, alle nostre comunità, a questo paese, al nostro pianeta, al nostro modello di sviluppo: pensare che potremmo essere gli altri e prenderci cura del nostro ambiente, fare bene e finanziare la manutenzione costante, e solo come eccezione, saper porre rimedio, in emergenza, ai danni dell’incuria e dell’abbandono. Non è solo per questo messaggio che ci piacerebbe poter legare al ricordo e alle parole di Rosanna Benzi, della quale il prossimo anno ricorrerà il 30esimo anniversario della morte, il nuovo viadotto Polcevera.
Non è il solo aspetto di connessione che leggiamo con la figura di Rosanna, donna europea nell’anno 1989, scrittrice, giornalista, polo e simbolo della cultura genovese e nazionale, che dalla sua stanza e dal suo polmone d’acciaio nell’ospedale San Martino di Genova, diventata la sua casa, dall’età di 17 anni a seguito della poliomelite (un virus che per fortuna abbiamo debellato!) che la colpì all’età di 14 anni, creò una comunità, uscì attraverso gli altri. Rosanna, da tutte le sue difficoltà, del suo essere donna e disabile, è ripartita per rinascere, ha fatto dei suoi limiti una forza, affetta da un inesauribile vizio di vivere, quello che vorremmo accadesse per Genova, per quello che ha vissuto e sta vivendo. Genova che sa lottare e si sa rialzare, facendosi comunità.
Per questo, e non per ultimo perché è una donna: perché raramente vengono in mente le personalità femminili quando si cercano simboli rappresentativi, candidati (anche elettorali). Le donne che aspettano da troppo tempo che le nostre società cambino nei loro confronti, che pongano attenzione alle loro esigenze e che di nuovo, oggi, nell’emergenza della pandemia, rischiano di tornare ad essere espulse dai luoghi di lavoro, o di sprofondare nelle gabbie di un lavoro agile dovendo trovarsi a gestire, in casa, cure familiari, lavoro e carriera. Pensare agli altri e alle altre, dunque. I familiari delle vittime hanno manifestato a mezzo stampa la volontà che possano essere i cittadini, i genovesi, a scegliere il nome per il nuovo viadotto, magari con il loro contributo. Per questo manifestiamo prima di tutto a loro prima che a qualsiasi altro, il nostro pensiero e la nostra proposta. Perché ci siamo sentiti e vogliamo continuare a sentirci loro, vogliamo continuare a pensare e sentirci i loro familiari caduti con o sotto il ponte e pensare che una società attenta ai bisogni e alla cura dei beni comuni, del bene comune, è possibile e vada perseguita. Perché crediamo che non ci servano messaggi trionfalistici, ma un modesto e sobrio abbraccio, un omaggio al senso di comunità e di solidarietà, per darvi la certezza che abbiamo capito, che faremo in modo e di tutto perché tutto cambi, e perché una cosa così non succeda mai più. Nome est omen: Viadotto sul Polcevera — “Rosanna Benzi”
Possibile Liguria