“Non è stata la pandemia del coronavirus a uccidere George Floyd […] È stata un’altra pandemia, la pandemia del razzismo e della discriminazione” — Benjamin Crump, durante la veglia per George Floyd. Le proteste e agitazioni che stanno attraversando gli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd (e prima di lui di tante e tanti altri cittadini afroamericani uccisi dalla polizia) non possono lasciare indifferente la comunità LGBTI+. Il clima di razzismo di cui l’America non è mai riuscita a liberarsi e che molti attivisti e opinionisti paragonano a un vero e proprio virus, ancora più letale del COVD19 (d’altra parte abbiamo visto che anche la pandemia impatta molto più gravemente sulle comunità nere), va di pari passo con la discriminazione nei confronti delle persone LGBTI+ e segue simili schemi repressivi e oppressivi. Conosciamo — o dovremmo conoscere — le ragioni per cui il Pride si festeggia proprio a giugno: è il mese dei moti di Stonewall, la storica rivolta contro la brutalità della polizia nei confronti della comunità LGBTI+. “First Pride was a riot”, il primo Pride fu una rivolta, è il modo in cui si ricorda l’origine di lotta politico-sociale delle manifestazioni, che esistono e resistono nonostante oggi i cortei e le celebrazioni abbiano, in molti paesi, una forte componente commerciale e siano spesso attraversati da polemiche sul rainbow-washing portato avanti da grandi e piccole aziende che nei fatti non praticano reali politiche di inclusione. Ma è sufficiente uno sguardo alle immagini che arrivano dai paesi in cui i Pride sono vietati, come la Turchia, con i manifestanti caricati dalla polizia, i volti insanguinati, gli idranti, i lacrimogeni che attraversano l’aria, per capire quanto quelle radici di rivolta, di lotta all’oppressione, di risposta alla violenza del sistema siano drammaticamente attuali. Quando uniamo la voce della comunità LGBTI+ in solidarietà a #BlackLivesMatter, non stiamo semplicemente offrendo un tributo a un passato comune, quello della violenza di Stato, della criminalizzazione delle identità e della brutalità della polizia, ma stiamo riconoscendo quello che dovrebbe essere un caposaldo delle lotte contro la discriminazione: i diritti devono essere di tutti e tutte, oppure sono privilegi. Una comunità che si batte per il contrasto all’omofobia (e non sempre anche la transfobia, come dovrebbe essere), ma ritiene che il razzismo e il classismo non la riguardino, sta tradendo e abbandonando alla violenza e alla discriminazione non soltanto altre persone marginalizzate e oppresse, ma anche una parte di se stessa: come a Stonewall, dove le rivolte furono guidate o animate da donne trans, nere, ispaniche, sex workers, senza fissa dimora, che rimasero poi escluse quando non addirittura ostracizzate. Non ripetiamo gli errori del passato: negare oggi l’intersezionalità della lotta significa isolare ancora di più chi sta subendo in maniera più forte il peso delle disuguaglianze. A partire dalle persone trans, che continuano a venire uccise e brutalizzate, al punto che è stato lanciato anche l’hashatg #blacktranslivesmatter per dare voce anche alla loro sofferenza. Le organizzazioni dei Pride di San Diego e Los Angeles hanno rilasciato delle dichiarazioni di profonda solidarietà nei confronti delle comunità afroamericane e il corteo del Pride di LA sarà una marcia per il #blacklivesmatter. Dedichiamo il nostro Pride Month a ogni lotta contro l’oppressione, contro un sistema che promuove odio e supremazia e che non rispetta libertà, diritti e uguaglianza. Per questi motivi ci uniamo alla solidarietà verso le nostre sorelle e i nostri fratelli afroamericani, la loro lotta è la nostra lotta.
Gianmarco Capogna
Francesca Druetti