La “scuola” è un “serbatoio elettorale e sindacale”. Così si esprimeva qualche tempo fa il Ministro Salvini, per introdurre in punta di spada il vecchio tema: abolizione del valore legale del titolo di studio. Come noto, l’abolizione del valore legale del titolo di studio è un cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle già nel 2009 ed è oggetto di una proposta di legge della deputata Maria Pallini. Nel contratto del governo la questione non compare. È forse possibile che ritorni l’adagio fra i sensi figurati del contratto di governo?
Se non viene rifinanziato il sistema dell’istruzione, “i capaci e i meritevoli anche se privi di mezzi” non potranno esercitare i loro diritti: questo il tema, questa è la questione, la quale è in primo luogo questione sociale. Ovunque il sistema dell’istruzione sia stato scarnificato e disossato, come sono nel nostro Paese scuola e università, la “libera concorrenza” diventa la competizione selvaggia che condiziona libertà e diritto: fra diseguali non vi è concorrenza, ma soltanto rapporti di forza, esclusione, emarginazione. L’abolizione del valore legale del titolo di studio, in questo contesto, renderebbe la qualità di ogni ordine di scuola, dall’infanzia all’università, strettamente legata ai finanziamenti privati, alla condizione sociale di chi la frequenta, ed a un sistema di accreditamento reputazionale non solo non necessariamente meritocratico, ma fondamentalmente discrezionale e arbitrario.
La politica e l’informazione da tempo hanno imparato, però, a far volteggiare le parole senza saper più cosa sia diritto e libertà. Nel 1947, all’interno della discussione sugli articoli 33 e 34 della Costituzione, il liberale classico Luigi Einaudi collegava l’abolizione del valore legale del titolo di studio proprio a quello della libertà di arte e insegnamento, alla critica al nozionismo, e ad una concezione della libera ricerca e dell’apprendimento come promozione ed esercizio di curiosità scientifica ed intellettuale. Siamo sicuri che Luigi Einaudi ora, di fronte allo spettacolo di incompetenza generalizzata che la politica da decenni offre, di fronte allo stravolgimento di qualsiasi autentico principio di “libera concorrenza”, di fronte a monopoli, abusi, alla costante trasgressione delle più elementari regole del gioco — non è questa, forse, la società attuale? — sarebbe ancora così fiducioso nella sua stessa proposta? Crederebbe ancora qualcuno che i finanziamenti privati e le élite economico-sociali riescano, con spirito illuminato ed umanitario, spontaneamente, a promuovere l’universale sviluppo della “persona umana”? Non verrebbe a chiunque il legittimo sospetto che l’abolizione del titolo legale non sia ora solo uno strumento ad arbitrio di poteri che con la libertà di pensiero e la libera concorrenza poco hanno a che vedere?
Non è un eroico furore che spinge il governo gialloverde ad amoreggiare con il pensiero liberale (ma anche con le più recenti proposte del ‘vecchio’ governo Monti), abolendo il valore legale del titolo di studio: il grido di libertà, che è anche il grido del diritto, la “sfida solenne” che a memoria di Giordano Bruno “nel trionfo di tutte le umane libertà lanciano oggi ad una voce dalle università italiane”, grido così caro anche a Luigi Einaudi, certo non è simile alle grida di Salvini e a quelle dei Cinquestelle.
Dafne Murè,
Comitato Scuola Possibile
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