Il cosiddetto decreto Sblocca Italia è apparso da subito come un mostro giuridico. Intanto non si capisce quali siano i requisiti di necessità e urgenza dei singoli provvedimenti in esso contenuto. Ma soprattutto l’eterogeneità dei campi di applicazione delle misure rende molto complicato distinguere tra le poche parti positive (ad esempio la bonifica dell’amianto a Casale Monferrato o la semplificazione burocratica per la realizzazione di opere edilizie all’interno degli appartamenti) e le molte negative.
Rifiuti zero o inceneritori?
Bruciare materia prima seconda è una follia. Non solo per l’impatto che ha sull’ambiente e le comunità interessate dagli impianti, ma anche e soprattutto da un punto di vista economico. Recuperare energia, come si dice nella slide, è un’operazione sempre in perdita proprio da un punto di vista energetico, non ha alcun senso. L’oggetto bruciato ha consumato molta più energia di quella che si ottiene una volta smaltito in un inceneritore.
La scusa che consente di giustificare l’articolo 35 della norma è quella secondo la quale gli inceneritori sono necessari “per rispettare le direttive europee” e “superare le procedure di infrazione per mancata attuazione delle norme europee di settore”. Niente di più falso e sbagliato: non c’è nessuna Direttiva europea che obbliga ad inviare ad incenerimento almeno una certa quota di rifiuto. C’è invece l’obbligo di pre-trattamento dei rifiuti, che deriva dalla Direttiva discariche.
In Italia produciamo circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani con 18 milioni di residuo (dati aggiornati al 2012). Tale rifiuto residuo negli ultimi 5 anni è risultato in calo mediamente di circa 1,1 milioni l’anno, per una media di diminuzione nei 5 anni del 5,5%. Qualora si adottino strategie più incisive di riduzione, riuso e raccolta differenziata, quali l’applicazione in modo generalizzato della raccolta domiciliare, ora applicata solo su ¼ della popolazione e della tariffa puntuale, ora applicata solo al 2% della popolazione, il calo del rifiuto residuo potrebbe essere molto più marcato riducendosi di almeno un’ulteriore metà rispetto alle attese indicate.
In alcune regioni d’Italia ci sono più inceneritori che rifiuti: Lombardia, Veneto, Friuli, Emilia Romagna. Così com’è già avvenuto per Svezia, Norvegia e Olanda, queste regioni sono ora obbligate ad importare rifiuti per alimentare i camini, evidente segno di un’errata progettazione nei piani di gestione che hanno puntato all’incenerimento, sottovalutando in modo clamoroso il trend di raccolta differenziata e di riciclaggio. Occorre quindi che nelle regioni del centro-sud non si ripetano gli stessi errori di programmazione.
L’incenerimento è una tecnologia rigida e ad alto costo di investimento. Per realizzarlo ci vogliono mediamente 7–8 anni. Ci vuole molto meno tempo per realizzare impianti di trattamento a freddo (noti come “Fabbriche dei materiali”), che oltre al dono della celerità mantengono e regalano al sistema flessibilità ed adattabilità a scenari crescenti di raccolta differenziata. I sistemi di pre-trattamento, peraltro abbondantemente presenti nelle regioni in emergenza come Lazio e Campania, possono rappresentare una valida e concreta alternativa agli inceneritori nella filiera impiantistica distribuita sul territorio.
In sintesi, nonostante le slide colorate del governo e il tentativo di smentire l’evidenza della norma, le scelte fatte rappresentano un evidente passo indietro rispetto a una gestione lungimirante ed economicamente sostenibile dell’”emergenza rifiuti”. La strategia rifiuti zero, tanto casa a parole al Presidente del Consiglio, si persegue non bruciando i rifiuti, ma riducendo la loro produzione e differenziando al massimo quelli ugualmente prodotti.
Innoviamo o trivelliamo?
Da oggi tutte le attività di prospezione, di ricerca e coltivazione di gas e greggio, nella terraferma e nel mare avranno “carattere di interesse strategico” e saranno “di pubblica utilità, urgenti e indifferibili”. Gli effetti pratici di tale scelta sono una enorme semplificazione delle procedure che sottrae alle regioni la possibilità di intervenire direttamente. Saranno i ministeri competenti a seguire il processo di valutazione ambientale e di autorizzazione. Il titolo concessorio unico consentirà automaticamente gli espropri necessari a tali attività, ponendo alcuni privati (le società petrolifere) in una posizione di assoluto privilegio rispetto ad altri privati (i proprietari dei terreni espropriati), che su quei terreni potrebbero aver fatto investimenti che non verranno in alcun modo compensati.
L’articolo di legge che introduce queste semplificazioni è intitolato “Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali”, dove però per risorse energetiche nazionali si intendono unicamente quelle fossili, mentre ormai da alcuni anni le risorse nazionali più utilizzate sono quelle rinnovabili. Nel 2013 infatti le rinnovabili nazionali (secondo i dati del Ministero per lo Sviluppo Economico) hanno prodotto più del doppio di energia rispetto alle fossili nazionali.
Del resto le risorse rinnovabili si pongono ormai a livello mondiale come concreta alternativa e diventano finalmente competitive anche in assenza di sussidi. Dovremmo iniziare a ragionare su dove e come è accettabile realizzare nuovi impianti rinnovabili, su quale tipo di rete di trasmissione e distribuzione serva, su come trattare gli autoconsumi, su come favorire la transizione verso l’elettrico di tutti gli usi termici e della mobilità. E invece rimaniamo bloccati in una visione novecentesca che continua a privilegiare direttamente o indirettamente le fonti più impattanti.
Autostrade deserte…
Nessuno ha mai detto che il rinnovo delle concessioni sia automatico: sicuramente i rinnovi devono prevedere nuovi investimenti da parte dei concessionari. Ma già dopo la pubblicazione del decreto ben tre diverse autorità nazionali sollevarono forti critiche: l’Autorità Nazionale Anticorruzione, l’Autorità di Regolazione dei Trasporti e l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
I rischi di infrazione della normativa comunitaria erano talmente evidenti che la Commissione Europea ha ritenuto di intervenire ad ottobre. È quindi stato necessario durante la conversione in legge introdurre un comma (art. 5 comma 4 bis) in cui è previsto che “L’attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo è subordinata al rilascio del preventivo assenso da parte dei competenti organi dell’Unione europea.” Rimane la critica politica, anche se un atto rispetta la normativa europea (e ci mancherebbe altro, visto che le procedure di infrazione sono costose) non significa che sia sensato e condivisibile.
Come già ricordavamo qualche settimana fa “In un settore così rigido, l’unico momento in cui si può realmente parlare di mercato e di concorrenza è quello in cui si assegnano, con una gara europea, le concessioni. Se le concessioni sono stiracchiate nel tempo, allungate indefinitamente, generano profitti da rendita di posizione del tutto ingiustificati in un’ottica di mercato. Profitti che significano maggiori oneri per tutti gli utenti.”
L’acqua (non è) pubblica
Il referendum del 2011, con il suo eccezionale risultato popolare, pone l’acqua, sottraendola agli interessi economici, tra i diritti da tutelare. Si afferma nella slide del PD che l’obiettivo non è quello di privatizzare ma ottimizzare il servizio idrico integrato, affidandolo in modo efficiente a gestori unici in grado di realizzare gli investimenti garantendo maggiore qualità ai cittadini.
Ma anche in questo caso è sufficiente legge l’articolo che regola la materia per capire dove sta la verità dei fatti. Con questo articolo si modifica quella parte del Codice ambientale (d.lgs. 152/2006) che riguarda la gestione del servizio. In particolare, con il passaggio da “unitarietà della gestione” a “unicità della gestione” si impone il gestore unico per ogni ambito territoriale ottimale. La scelta del futuro gestore deve ricadere tra chi gestisce già il 25% delle utenze della popolazione residente in un territorio.
La strada è obbligata: le grandi aziende quotate in borsa saranno i futuri gestori, allontanando così dal controllo dei cittadini e dei consigli comunali la gestione del servizio e introducendo quei criteri di mercato che sono alla base della privatizzazione dell’acqua. Un grande processo di aggregazioni/fusioni è alle porte. Operazione che vedrà Acea, Hera, A2a e Iren accaparrarsi tutte le società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici. Come se non bastasse, la legge di stabilità garantisce agli enti locali che decideranno di vendere ai privati le loro azioni o di quotarle in borsa di poter impiegare i proventi al di fuori del patto di stabilità, costringendo i sindaci ad alienare i beni primari delle comunità per consentire ai Comuni di funzionare. Questo significa: imposizione, limitazione delle libertà individuali, sottrazione di ricchezze dei luoghi.
Grandi opere, piccole idee
L’autostrada Orte Mestre è un’opera inserita nelle Legge Obiettivo (Governo Berlusconi, 2001) e dichiarata di pubblica utilità dal 2003. Perché quindi non viene realizzata? Perché i conti non tornano: l’autostrada doveva essere finanziata grazie a cosiddetti investitori privati che però al momento non la ritengono conveniente. Da alcuni anni questi proponenti hanno quindi cercato di ottenere uno sconto fiscale sull’opera (vi risparmiamo la storia dei precedenti decreti bocciati dalla corte dei conti). È certamente solo un caso che tra i proponenti spicchi una società che fa capo a Vito Bonsignore, europarlamentare del Nuovo Centro Destra, compagno di partito del ministro competente, Maurizio Lupi.
Lo Sblocca Italia prevede di rinunciare a 2 miliardi di euro di entrate dello stato a favore del progetto della Orte Mestre. Se mai questa autostrada si realizzerà sarà quindi merito della legge di conversione di questo decreto: qualcuno può negare che la costruzione di una autostrada di 400 km possa causare un consumo di suolo? Non solo i 600–700 ettari occupati direttamente, grazie al nastro d’asfalto di 4 corsie. Ma soprattutto l’incalcolabile impatto indiretto, visto che tutti i terreni agricoli che si troveranno in prossimità degli svincoli diventeranno naturali ospiti di poli di logistica o centri commerciali (con il conseguente svuotamento dei centri urbani, altro che riqualificazione).
LE NOSTRE PROPOSTE A COSTO ZERO
A parità di costo. Meno autostrade, niente sconti fiscali ai fossili, rilancio efficienza, reti e innovazione.
Verso rifiuti zero
Finanziare, con un imposta da applicare sullo smaltimento dei rifiuti in discarica e negli inceneritori, un piano nazionale per l’introduzione del porta a porta e lo sviluppo di centri per il compostaggio e per il recupero dei materiali. I rifiuti da problema a ricchezza (art. 35 dello Sblocca Italia).
Aziende pubbliche di dimensione industriale e di qualità
Destinare i 400 milioni di € che il Governo vuole utilizzare per favorire le privatizzazioni di acqua, trasporto e rifiuti alla nascita di aziende pubbliche di dimensione industriale. Il referendum 2011 va rispettato.
500 milioni a garanzia delle Esco
Per sbloccare le Esco e il credito bancario collegato alle loro attività, un fondo regolamentato e verificato da Enea.
500 milioni per l’efficientamento immobili pubblici (con ritorno)
Efficientamento energetico patrimonio e consumi pubblici (non beneficiano del credito d’imposta): con 500 milioni per tre anni si ottengono risultati significativi e in prospettiva si fa anche spending review.
In Italia ci sono 13 mila uffici pubblici e 55 mila scuole. Spendendo 500 milioni all’anno, in meno di dieci anni si può ottimizzare l’efficienza in un terzo degli uffici e delle scuole, con un risparmio di oltre 400 milioni di euro all’anno e un risparmio energetico di 20 milioni di MWh/anno. Questo intervento attiverebbe circa 10 mila posti di lavoro stabili per dieci anni.
Un altro esempio di efficace spending review riguarda l’illiminazione pubblica (spesa pubblica annua: 2 miliardi). Investendo in sistemi ad alta efficienza si può ottenere un risparmio sulla spesa fino al 50%, e il costo degli investimenti iniziale si ripaga al massimo in 5 anni.
500 milioni per acquistare 100 treni per pendolari
Il trasporto pubblico è già terribilmente mortificato da anni e la legge di stabilità sembra proseguire su questa strada (non ferrata) e peggiorare le cose.
Treni pendolari. Ogni giorno in Italia circolano quasi 3 milioni di pendolari. Dal 2009 a oggi il numero dei pendolari è cresciuto del 17%, ma le risorse pubbliche per il settore sono scese di un quarto (e le tariffe sono cresciute, a seconda delle regioni, dal 20 al 50%). Con 500 milioni si possono acquistare tra 90 e 100 nuovi treni, avvicinando la dotazione italiana a quella di Paesi come la Germania e la Francia. L’impatto positivo sull’occupazione sarebbe di almeno 8 mila posti di lavoro.
Banda lunga
In termini di infrastrutture, dopo tante chiacchiere, commissioni, promesse, noi siamo qui: al 48° posto al mondo per velocità della connessione internet misurata, ultimo per quanto riguarda gli Stati dell’Unione Europea. La velocità stimata sulle connessioni degli utenti italiani è infatti di 4,9 megabit al secondo mentre nel resto della Ue si viaggia a velocità più che doppia (per non parlare della Corea del Sud, dove la media stimata è di 22,1 megabit). Siamo perfino sotto il Portogallo, la Romania e la Slovacchia. Peggio di noi, solo la Turchia. Per quanto riguarda la banda larga con velocità superiore a 10 megabit al secondo, in Italia questa è usufruita solo dal 18,4 per cento di chi ha una connessione alla rete, contro una media europea del 66 per cento. Sono ancora più di un terzo (34 per cento) gli italiani che non hanno mai aperto un browser in vita loro. Di nuovo, siamo messi peggio perfino del Portogallo (che è al 33 per cento), anche se, volendo, possiamo consolarci pensando alla Grecia (36) e alla Bulgaria (41). Poco confortante è invece il raffronto complessivo con le medie europee: ad esempio, soltanto il 56 per cento degli italiani usa internet ogni giorno, contro il 72 nel resto della Ue. E solo il 21 per cento utilizza i servizi digitali offerti dalla pubblica amministrazione (quando esistono), a fronte di una media europea pari al 41; mentre siamo sotto del 30 per cento rispetto alla media Ue, assieme a Romania e Bulgaria, se si guarda agli acquisti on line.
Nota provocatoria sul paesaggio
Se il paesaggio diventa un limite agli interventi dei privati o ai grandi interventi gestiti dai Commissari sopra ogni altro livello di democratica competenza, ci chiediamo (in modo provocatorio) perché non venga abrogato palesemente l’art. 9 della Costituzione.
Gli effetti di un silenzio-assenso per una serie di opere, riesumato da Renzi, dopo che i vari tentativi dei governi di destra erano stati bloccati da sentenze che ne rilevavano l’illegittimità, possono essere devastanti. Se i tempi per l’espressione del parere delle Soprintendenze sono troppo lunghi, si agisca sanzionando, anche pecuniariamente, l’ente preposto: su ogni pratica che esca dai tempi, si trattiene la sanzione dallo stipendio funzionario responsabile. Non eliminando chi dovrebbe garantire la tutela del nostro patrimonio, per quel che ce n’è rimasto tra crolli, alluvioni, incuria. Se le Soprintendenze non ci fossero state, avrebbero costruito fin sull’Acropoli di Agrigento. E poi, diciamocelo bene: ma in un’Italia che è stata costruita all’inverosimile, pur con la presenza dei Soprintendenti, pensiamo davvero sia quello ciò che “blocca l’Italia”? Non è che l’Italia è stata bloccata (asfaltata, spianata, immobilizzata, cementata e via con le metafore tanto care alla politica di questi tempi) per una scelta sbagliata sul modello di sviluppo che è ancora confermata, di più, rilanciata, da questo decreto?
Autori: Bengasi Battisti, Natale Belosi, Marco Boschini, Enzo Favoino, Gianluca Ruggieri