E’ un filo rosso quello che lega Taranto, la Locride e Pozzallo. Tre regioni, tre territori diversi, tre territori difficili, la comune partecipazione al sistema di accoglienza italiano (ed europeo). Durante il fine settimana appena trascorso, Beatrice Brignone, Stefano Catone, Andrea Maestri ed Elly Schlein si sono recati in questi luoghi e si sono messi in ascolto. Dei cittadini, degli operatori, delle figure istituzionali, dei migranti.
Il filo dell’accoglienza stringe nodi diversi. Se, rispettivamente a Taranto e Pozzallo, Elly e Andrea hanno fatto visita a due centri che applicano l’approccio hotspot, Beatrice e Stefano hanno fatto visita a centri del sistema SPRAR. Qual è la differenza tra i due centri?
I cosiddetti hotspot sono centri di prima accoglienza, voluti dall’Unione Europea, nei quali si dovrebbero svolgere esclusivamente operazioni di identificazione e nei quali il migrante non dovrebbe restare per più di 48/72 ore. Tutti i centri hotspot sono centri che esistevano già in passato: diventare hotspot non significa altro che applicare procedure più rigide di identificazione così da applicare il regolamento di Dublino.
Il sistema SPRAR è invece il sistema di seconda accoglienza costruito con il coinvolgimento degli enti locali, al quale dovrebbero accedere, per un periodo di sei mesi, i richiedenti asilo o coloro che già hanno ricevuto protezione internazionale. “Dovrebbero”, perché in realtà i tempi si dilungano molto spesso e perché i posti del sistema SPRAR sono molto limitati (circa il 20% del totale), e così sono nati un sacco di centri straordinari, che sorgono senza il coinvolgimento degli enti locali e con vincoli — di ogni genere — molto più bassi rispetto al sistema SPRAR. Il fine è quello di fornire strumenti, a livello linguistico, culturale, professionale e formativo.
Come è andata? Bene nelle strutture SPRAR, male negli hotspot. Per quanto riguarda Pozzallo, Andrea Maestri ha registrato una situazione particolarmente critica rispetto alla presenza dei minori: «bambini di undici, dodici anni o poco più, tutti con le ciabatte infradito e i piedi nudi, con gli stessi vestiti per giorni, per non parlare della biancheria intima. Cibo poco e di pessima qualità. Niente da fare se non dormire, rimuginare sul dolore presente e sui pericoli scampati, mangiare e tornare a dormire. Vite sospese, per non parlare dei diritti». Sospensioni che portano esasperazione, ed esasperazione che «porta allo sciopero dei bambini ed è capitato anche che uno di questi, ivoriano, che ha preso coraggio, si è avvicinato a noi e ha voluto raccontare, sia rimasto ferito dai colpi di manganello». Una situazione a dir poco paradossale, perché «non dovrebbero neanche essere lì e in ogni caso sono lì, per giorni, per mesi, in attesa di un percorso vero di accoglienza, di formazione, di protezione. Questa è solo emergenza».
Alcune criticità sono state riscontrate da Elly, in visita all’hotspot di Taranto. Anche a Taranto manca chiarezza rispetto alla presenza di minori: «non è chiaro quante volte la struttura abbia ospitato minori, che invece dovrebbero essere accolti in strutture dedicate, ma ci è stato confermato che succede, a seconda dei numeri in arrivo e della disponibilità delle strutture apposite». La situazione degli alloggi non è delle migliori: «in un tendone molto ampio sono allestiti 280 posti per uomini: si vedevano solo i materassi, senza le lenzuola. Ci è stato detto che è possibile fossero nei sacchi di plastica che abbondano, chiusi con un semplice nodo, sotto ai letti, dato che tutti le ricevono all’arrivo. C’è un tendone per le donne, e ci sono cinque tende per le famiglie, in cui capita ve ne convivano più d’una. Completano il quadro una serie di bagni e docce prefabbricate, e un tendone adibito a mensa». Mancano i telefoni, manca il collegamento a internet, «quindi le persone non possono comunicare con l’esterno, né contattare i propri familiari per dare notizie».
«Il punto più delicato è capire se vi è un’adeguata informativa sui diritti e la possibilità di chiedere asilo — prosegue Elly — e capire che cosa succede a chi non manifesta questa intenzione. Qui fioccano i “fogli di via”, con cui il questore notifica direttamente l’ordine di lasciare il territorio italiano con propri mezzi entro sette giorni». Il problema è che «sostanzialmente le persone vengono lasciate per strada, abbandonate al loro destino». Come accennato precedentemente, la durata massima della permanenza in un hotspot dovrebbe essere di 72 ore «eppure alcuni dei ragazzi con cui abbiamo avuto modo di parlare all’uscita ci hanno detto di essere lì da una settimana, e di non aver ricevuto alcuna informazione, diversamente da quanto ci hanno detto le autorità (che ci hanno anche mostrato i fogli dell’informativa e il cosiddetto “foglio notizie”, dove finalmente figura anche l’opzione “asilo” tra i motivi dell’ingresso in Italia), sui propri diritti e sulle proprie prospettive. Sarebbe una violazione molto grave dei loro diritti». Successivamente, la stessa criticità è emersa dall’incontro con gli attivisti e i volontari della Campagna Welcome Taranto, i quali «hanno raccontato delle testimonianze secondo cui gli egiziani verrebbero sistematicamente accompagnati nel CIE per poi essere rimpatriati, senza essere informati adeguatamente, e che i marocchini verrebbero sistematicamente messi per strada con il foglio di via».
Come anticipavamo, invece, le cose sono andate decisamente bene nella Locride, dove Beatrice e Stefano — accompagnati dal comitato di Possibile “Costa dei gelsomini” — hanno visitato e incontrato le persone che ruotano attorno ai centri SPRAR di Caulonia, Riace, Camini, Stignano e Gioiosa Ionica.
Qualcuno l’ha definita la dorsale dell’accoglienza, e in effetti non potrebbe essere che così. «Tutti i centri che abbiamo visitato, ciascuno con le proprie peculiarità, si basano sul modello dell’accoglienza diffusa: piccoli appartamenti, che ospitano al massimo quattro o cinque persone, preferendo l’unità famigliare». Il tutto è cominciato grazie all’iniziativa di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, che ha fatto del piccolo borgo in via di spopolamento una vera e propria nuova comunità, dove al momento risiedono circa 250 cittadini stranieri e 250 cittadini italiani. «Un posto unico al mondo, dove l’integrazione è completa, dove le differenze hanno portato benefici a tutti». Grazie ai contributi che il Ministero dell’Interno assicura alla rete SPRAR, Riace ha non solo combattuto lo spopolamento, ma creato posti di lavoro per italiani e stranieri, e ha una veste completamente rinnovata e curatissima. L’esempio di Riace è stato seguito dagli altri comuni elencati in precedenza: c’è chi ha scelto di cercare di replicare in ogni aspetto questo modello, come Camini, e chi invece ha scelto numeri meno elevati, ma comunque importanti e in ogni caso capaci di mettere in moto processi economici, sociali e culturali a saldo positivo per tutti.
Un modello certo non semplice da replicare, e che qui è nato grazie alla radicalità di azione e di pensiero di Mimmo Lucano, ma che diverse realtà stanno già sperimentando — e con ottimi risultati — in altre zone di Italia. Un modello da cui partire, per costruire un sistema italiano efficiente, efficace, positivo per tutti, e capace di rispettare la dignità delle persone.
Il nostro lavoro prosegue. Scrivete a stefano@possibile.com.