[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1496824387154{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]Molto, molto interessante il racconto delle peripezie intercorse tra il ministro dell’Interno, Marco Minniti, e il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, raccontate da quest’ultimo oggi su Repubblica. Scalfari ci spiega di essere diventato «profondamente amico» del ministro in seguito a degli scambi telefonici per «avere dei chiarimenti su una mia questione personale». Lasciato un messaggio in segreteria per queste questioni «molto marginali» per le quali «non c’era né urgenza né necessità», «dopo pochi secondi la sua segreteria mi passò direttamente il ministro Minniti». Cose che succedono a tutti: chiamare il ministro dell’Interno, lasciare un messaggio in segreteria raccontando questioni apparentemente di poco conto ed essere richiamati dal ministro in persona. E da quel momento nasce una solida amicizia che, ci racconta Scalfari, ripercorre le storie famigliari dei due, che si snodano tra Reggio Calabria e Vibo Valentia, dove il nonno del giornalista, insegnante, lasciò ottimi ricordi ai propri studenti. «I calabresi si aiutano individuando i migliori tra di loro e seguendone gli insegnamenti e la cultura», conclude Minniti, citato da Scalfari.
Dopo questa ampia premessa e il racconto di successivi scambi si entra (finalmente) nella carne delle politiche promosse da Minniti, con un focus sull’Africa e sulle migrazioni. «Bene — mi sono detto arrivato a questo punto -, l’ampia premessa e il racconto di questa solida e ancestrale amicizia serviranno da cappello per introdurci a domande appuntite, che non faranno sconti al potere nonostante i rapporti personali, dato che altrimenti sarebbe troppo evidente il venir meno del compito giornalistico e sembrerebbe che Repubblica voglia stendere un tappeto rosso sul quale far sfilare uno dei ministri che maggiormente sta occupando la scena politica».
E invece no. Il prosieguo dell’intervista è una celebrazione della campagna d’Africa del ministro, senza una domanda che sia una, senza mezza obiezione che sia mezza. Si ripercorrono le gesta eroiche del ministro, civilizzatore di tribù incivili, comandante in capo di giovani militari italiani da mandare su suolo africano.
Ma andiamo con ordine, punto per punto.
Obiettivo dei colloqui africani del titolare dell’Interno era «discutere e arrivare a un accordo con i governi i cui territori confinano con il sud del deserto tripolitano. E’ infatti da lì che entra in Libia l’emigrazione, non già dai confini col deserto cirenaico perché quello finisce presto e si allarga verso i confini egiziani. Quindi non è la via migliore». Almeno due domande sorgerebbero spontanee. La prima: «Scusi, ministro, ma per quanto il flusso migratorio che attraversa la tripolitania (ovest della Libia) sia consistente, esiste un flusso notevole anche attraverso la cirenaica (est della Libia), da dove passano cittadini del corno d’Africa cui riconosciamo protezione in percentuali elevatissime: ci stiamo occupando della loro sicurezza? E ancora, ministro, non crede che cercando di chiudere una rotta le persone in fuga cercheranno nuove rotte, sicuramente più pericolose, e i trafficanti si faranno ancora meno scrupoli nel guidarli?». E invece niente, Scalfari si limita a dirci che Minniti ha «lungamente studiato».
Tra i suoi studi, quello delle tribù africane con le quali stringere accordi. «Persone degne della massima considerazione […]. Il guaio è che loro hanno colloqui frequenti con la persona che è il capo dello stato in cui le loro comunità vivono ma ci parlano singolarmente e quindi con uno scarso potere rappresentativo». Ed ecco quindi il colpo di genio civilizzatore: «io ho suggerito a ciascuno di loro e a tutti insieme di mettersi d’accordo, costruire una vera e propria confraternita politico-sociale e andare tutti insieme, ogni volta che ce n’è bisogno, a parlare con le autorità politiche». Basta mettersi d’accordo, no? Che importa se sono queste stesse tribù a essere in lotta tra di loro (citando Internazionale): «prima del 2011, alcuni accordi di pace informali avevano garantito al governo di Tripoli di controllare – almeno in parte – il confine, ma questi accordi sono falliti dopo la caduta di Muammar Gheddafi e diverse tribù hanno cominciato a contendersi il controllo delle principali rotte dei traffici illegali». «“Si tratta di zone desertiche, molto insicure, zone che da sempre sono lo scenario di traffici di armi, di droga e di esseri umani”, spiega Giuseppe Loprete dell’Oim, che è appena tornato da una missione al confine tra il Niger e la Libia. “Le popolazioni dei tubu e dei tuareg presenti in Libia sono presenti anche in Niger, la frontiera per loro non esiste. Tra il nord del Niger e il sud della Libia c’è un rapporto di continuità: è importante che le comunità locali siano coinvolte in qualsiasi tipo di negoziato”, dice Loprete che sottolinea un aspetto importante, ma sottovalutato: “L’immigrazione irregolare è una fonte di guadagno per le comunità locali”». E invece niente, ci si limita alla constatazione che i capi delle tribù hanno molto gradito il suggerimento.
E forse l’hanno molto gradito per le ragioni spiegate successivamente: «capitali adeguati e imprese adeguate ad avviare uno sviluppo notevole dell’economia di quei territori». «Sul modello degli investimenti di ENI in Nigeria?», ribatte prontamente Scalfari. No, non è vero: Scalfari non ribatte, e Minniti rilancia: «abbiamo anche previsto — se necessario — che l’Italia mandi un contingente militare di qualche centinaio di giovani i quali abbiano il solo compito di controllare che i patti tra le tribù e i governi vengano rispettati e le persone più disagiate, quelle pronte a trasformarsi in fuggitivi con tutti i malanni che questa situazione comporta, si siano adeguatamente forniti di lavoro e del relativo benessere che da quel lavoro può scaturire». «Mi scusi ministro, ci sta dicendo che l’operazione militare “Deserto Rosso” anticipata da Repubblica (il giornale di cui sono fondatore) ma smentita dal ministero della Difesa è confermata? Mandiamo davvero dei militari in Africa a chiudere le rotte migratorie?», avrebbe potuto chiedere Scalfari, e invece no: «l’ora era molto tarda», chiude.
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