Io, la mia memoria e il nostro presente

Io credo e voglio credere al potere della memoria, quella dei racconti di chi la guerra e il regime li ha vissuti, ma non credo che la loro efficacia, affinché quei tempi non tornino più, sia quella che questi “mala tempora” richiedono. Ho paura che i giovani, come me, a mio tempo, non capiscano.

[vc_row][vc_column][vc_column_text]di Anna­ma­ria Guidi

Sono nata nel ’58. Ho sessant’anni. Comin­cio da qui, da lon­ta­no. Ma non è trop­po lon­ta­no.

Ho vis­su­to la mia infan­zia in pie­no boom eco­no­mi­co, trop­po gio­va­ne per esse­re pro­ta­go­ni­sta del­le rivol­te stu­den­te­sche del ’68 ma non così tan­to da non venir­ne influen­za­ta negli anni a veni­re, quel­li impor­tan­ti dell’adolescenza. I tem­pi del regi­me e del­le guer­re, se non era­no mia espe­rien­za diret­ta, era­no anco­ra abba­stan­za vici­ni da esser­lo per la mia fami­glia.

Ricor­do mio non­no che mi rac­con­ta­va del­la sua meda­glia al valo­re nel­la pri­ma guer­ra mon­dia­le, che gli era sta­ta con­fe­ri­ta per­ché ave­va valo­ro­sa­men­te attra­ver­sa­to il cam­po di bat­ta­glia sot­to il fuo­co nemi­co per por­ta­re un mes­sag­gio ad un capi­ta­no. Ascol­ta­vo mia madre che mi dice­va come, duran­te la secon­da guer­ra mon­dia­le, da ragaz­zi­na, vede­va gen­te par­ti­re e non tor­na­re più, di come “non si pote­va par­la­re”, dell’olio di rici­no, dei pestag­gi e del­le ron­de, del­le fedi d’oro che sua suo­ce­ra ave­va dovu­to con­se­gna­re al regi­me per arma­re i sol­da­ti, dei suoi saba­ti nel cor­ti­le del­la scuo­la, in casac­ca bian­ca e gon­nel­li­no nero a fare gin­na­sti­ca e a ren­de­re omag­gio al duce col salu­to roma­no. Mi dice­va di come tut­ti “tira­va­no avan­ti” sen­za trop­po cri­ti­ca­re, che era pericoloso.

Quei discor­si, non so se era man­can­za di sen­si­bi­li­tà mia, li ascol­ta­vo, for­se li capi­vo, ma con l’innocente spen­sie­ra­to distac­co, un po’ intrin­se­ca­men­te super­fi­cia­le, di cui si è capa­ci solo da gio­va­ni e che mi ave­va impe­di­to di rea­liz­za­re fino a quel momen­to il peri­co­lo e la sof­fe­ren­za che i non­ni, i padri, le madri e le sorel­le ave­va­no dovu­to affron­ta­re e subi­re.

Ero ormai adul­ta quan­do il mio atteg­gia­men­to ver­so i rac­con­ti del­la guer­ra e del fasci­smo è cam­bia­to e si è tra­sfor­ma­to in empa­tia. Ed è sta­to un epi­so­dio in par­ti­co­la­re che mia madre mi rac­con­tò, un pome­rig­gio, dopo che ave­vo mes­so nel let­ti­no mio figlio di tre anni per il piso­li­no pomeridiano.

Mia non­na non ave­va più noti­zie di suo figlio in guer­ra da quan­do nel ’43 una let­te­ra, in real­tà poco chia­ra e sgram­ma­ti­ca­ta, scrit­ta da un com­mi­li­to­ne, le face­va capi­re che lui era mor­to. Arri­vò il ‘46 e la guer­ra era fini­ta da un pez­zo. Come tut­ti i gior­ni mia non­na era nell’orto di casa, un vici­no la chia­mò da lon­ta­no e cor­ren­do gri­dò che ave­va visto alla sta­zio­ne un sol­da­to che sem­bra­va suo figlio. A mia non­na cad­de di mano la zap­pa, infor­cò la bici di mio non­no e peda­lan­do all’impazzata col cuo­re in gola per quei lun­ghi quat­tro chi­lo­me­tri che la divi­de­va­no dal­la sta­zio­ne, ci arri­vò sfi­ni­ta, con l’ansia e la spe­ran­za a mil­le. Era lui. Spor­co, mal­con­cio e mala­tic­cio. Ma era lui. Vivo.

Pian­go sem­pre quan­do lo rac­con­to. So che è un rac­con­to, uno dei mil­le che mil­le altri pos­so­no rac­con­ta­re, che toc­ca, ma so anche che io non avrei col­to fino in fon­do tut­te le ansie e gli sta­ti d’animo di quei momen­ti se anch’io non aves­si avu­to un figlio e se que­sto non mi aves­se per­mes­so di imme­de­si­mar­mi, di ritro­var­mi nel­le vesti di una madre che ritro­va un figlio pen­sa­to mor­to, una madre a cui ave­va­no tol­to un figlio per man­dar­lo in guerra.

Io cre­do e voglio cre­de­re al pote­re del­la memo­ria, quel­la dei rac­con­ti di chi la guer­ra e il regi­me li ha vis­su­ti, ma non cre­do che la loro effi­ca­cia, affin­ché quei tem­pi non tor­ni­no più, sia quel­la che que­sti “mala tem­po­ra” richie­do­no. Ho pau­ra che i gio­va­ni, come me, a mio tem­po, non capiscano.

Sen­za stru­men­ti di imme­de­si­ma­zio­ne empa­ti­ca non riu­sci­re­mo a inci­de­re. Abbia­mo biso­gno di cala­re il pas­sa­to nel pre­sen­te e decli­nar­lo con esem­pi attua­li che fac­cia­no sen­ti­re sul­la pro­pria pel­le e den­tro il pro­prio cuo­re quan­to sia peri­co­lo­so dare spa­zio e voce a chi vuo­le tor­na­re ad impor­re, anche alla che­ti­chel­la, siste­mi illi­be­ra­li e anti­de­mo­cra­ti­ci.

Abbia­mo biso­gno di descri­ve­re cosa può cam­bia­re nel pro­prio quo­ti­dia­no, cosa pos­sia­mo per­de­re, che con­se­guen­ze ha il con­trol­lo e la per­di­ta del­la liber­tà per­so­na­le, di espres­sio­ne, di stampa.

Dimo­stra­re quan­to poco scon­ta­ti sia­no la pace in cui si è vis­su­ti fino­ra, la liber­tà di sce­glie­re, di espri­me­re e scri­ve­re il pro­prio pen­sie­ro, di cir­co­la­re per il mon­do, di rice­ve­re una infor­ma­zio­ne che con­sen­ta di far­ti una opi­nio­ne. Insom­ma dob­bia­mo pro­spet­ta­re cosa suc­ce­de­rà se doma­ni mat­ti­na ci tro­vas­si­mo in uno Sta­to fasci­sta. Che impat­to avreb­be sul­la nostra vita quo­ti­dia­na. Non sono sicu­ra che oggi lo sappiamo.

È tar­di?

In una inter­vi­sta in TV, la sena­tri­ce Segre ha tri­ste­men­te dichia­ra­to che, subi­to dopo la fine del­la secon­da guer­ra, colo­ro che ave­va­no soste­nu­to il regi­me e con­ti­nua­va­no con­vin­ti a soste­ner­lo, non osa­va­no mani­fe­star­lo per­ché gli effet­ti dell’ideologia nazi­fa­sci­sta era­no sta­ti tra­gi­ca­men­te indi­ci­bi­li e ave­va­no pro­dot­to milio­ni di mor­ti e per­se­gui­ta­ti. Ma in real­tà l’idea di un uomo solo al coman­do che limi­tas­se le liber­tà per­so­na­li in nome dell’ordine pub­bli­co non si è mai dis­sol­ta.

In mol­ti con­ve­gni sul­le nuo­ve for­me di fasci­smo, si è rico­no­sciu­to da tem­po che uomi­ni di dichia­ra­ta fede fasci­sta, nel cor­so degli ulti­mi decen­ni, si sono insi­nua­ti nel­le isti­tu­zio­ni, dismet­ten­do i pan­ni degli estre­mi­sti neri e indos­san­do “il vesti­to buo­no”, quel­lo del poli­ti­co per bene, pre­sen­tan­do­si così alle ele­zio­ni e con­qui­stan­do nel tem­po posi­zio­ni nel­le isti­tu­zio­ni comu­na­li, regio­na­li e nazio­na­li “sot­to men­ti­te spoglie”.

Oggi sia­mo nel­la fase in cui que­sti ésca­mo­ta­ges non sono più neces­sa­ri e i neo­fa­sci­sti han­no già pre­so posi­zio­ni stra­te­gi­che. Giu­sto due esem­pi recen­ti a cui a bre­ve aggiun­ge­rò il ter­zo. Per me il più drammatico.

Tut­ti han­no visto che il respon­sa­bi­le del­la stra­ge alla Diaz nel 2001, anzi­ché esse­re allon­ta­na­to, è sta­to pro­mos­so ai ver­ti­ci del­la Poli­zia. Tut­ti han­no visto che il sim­bo­lo di Casa Pound è entra­to a pie­no tito­lo nel­le sche­de elet­to­ra­li del 4 mar­zo 2018.

Vien da chie­der­si chi ha pro­mos­so il pri­mo e chi ha sor­vo­la­to sull’incostituzionalità di un grup­po che si dichia­ra aper­ta­men­te fasci­sta. Se que­sto è pos­si­bi­le, que­sto signi­fi­ca che da tem­po le Isti­tu­zio­ni, di uno Sta­to la cui car­ta Costi­tu­zio­na­le si fon­da sull’antifascismo, sono inve­ce respon­sa­bi­li e com­pli­ci dell’avanzata del­le for­ze anti­de­mo­cra­ti­che che quel­la Costi­tu­zio­ne voglio­no cal­pe­sta­re. Non c’è nul­la di più stu­pi­do da par­te di un siste­ma demo­cra­ti­co che con­sen­ti­re a un movi­men­to anti­de­mo­cra­ti­co di far­si lar­go per pro­muo­ve­re le pro­prie idee che ten­do­no alla distru­zio­ne del­la demo­cra­zia stes­sa lascian­do che ne usi­no gli stru­men­ti. Faci­le insom­ma esse­re fasci­sta in uno Sta­to demo­cra­ti­co, impos­si­bi­le il con­tra­rio. O è stu­pi­do o è gui­da­to da chi del­la demo­cra­zia vuo­le sbarazzarsi.

Non ulti­mo, un fat­to gra­vis­si­mo: è di qual­che gior­no fa la nomi­na di Foa a Pre­si­den­te del­la Rai. Embè, det­to tut­to ciò che è sta­to det­to fino­ra, pote­va man­ca­re il con­trol­lo dell’informazione? For­za Ita­lia ave­va vota­to con­tro la sua nomi­na, poi Sal­vi­ni è anda­to a cena da Ber­lu­sco­ni et voi­là, For­za Ita­lia ha vota­to sì. Les jeux sont fai­ts. E noi dove sia­mo e cosa facciamo?[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

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Ma la gran­de par­te­ci­pa­zio­ne allo scio­pe­ro del 13 dicem­bre dimo­stra che la dimen­sio­ne col­let­ti­va del­la nostra lot­ta, del­le nostre riven­di­ca­zio­ni, non è perduta.