Lavoro da più di 25 anni in Telecom Italia, ora ribattezzata TIM per un’operazione di rinnovamento del brand: ho scelto di lavorare nel suo centro studi poco dopo la laurea e qui sono rimasta, anche quando il settore delle TLC era in fermento e ricco di offerte di lavoro, principalmente per la qualità dei colleghi, professionalmente preparati, culturalmente attivi e socialmente impegnati.
Eravamo 100.000 dipendenti nel 2000, ora siamo poco più di 50.000. Il 13 dicembre c’è stato uno sciopero aziendale che ha raggiunto un livello di partecipazione come non accadeva più dagli anni ’70, che ha visto sfilare fianco a fianco nei cortei i lavoratori dei call center con gli impiegati e i quadri, i tecnici della rete di accesso con le Panda rosse insieme a noi provenienti dagli ex settori di ricerca e sviluppo, settori quasi scomparsi oramai in azienda: abbiamo ritrovato un’unità che da tempo non avevamo più, perché lottavamo per motivi differenti, avendo diverse necessità, perché l’azienda ha sempre applicato con successo la strategia del divide et impera, perché noi lavoratori ci siamo disabituati a lottare, ma in questo momento siamo uniti da una comune rabbia, dalla difesa della dignità del nostro lavoro. In questi giorni abbiamo letto e abbiamo sentito motivazioni delle nostre proteste in cui non ci riconosciamo e i media non ci hanno dedicato spazio: in effetti al momento non ci sono ancora licenziamenti e sembra che ormai non si faccia più notizia se non si parla di migliaia di licenziati.
Ma non stiamo scioperando solo per i buoni pasto o perché ci stanno forzando a finire le ferie, come hanno come abbiamo letto su alcuni giornali.
Stiamo scioperando perché un top management arrogante ha ottenuto premi stratosferici, mentre noi lavoratori non abbiamo avuto il premio di produzione.
Stiamo scioperando perché i nostri manager ricevono bonus se raggiungono obiettivi sul taglio dei costi, che realizzano peggiorando la vita lavorativa a tutti i livelli, introducendo rigidità e demansionamenti, considerando i dipendenti come un costo invece che come una risorsa per l’azienda da valorizzare.
Stiamo scioperando perché il nostro management oltre al piano di taglio dei costi non presenta un piano industriale per un’azienda che ha perso negli anni molto valore in borsa e che ha un futuro sempre più incerto: si limita per lo più a una gestione puramente finanziaria e a breve termine, mentre noi lavoratori da anni stiamo facendo periodi di solidarietà con il conseguente taglio del salario e ogni anno si guadagna un po’ di meno di quello precedente. Il nostro attuale AD se raggiunge il suo obiettivo di risparmio di 1,6 miliardi di euro prende uno Special Award milionario, fino a 55 milioni di euro, ma se l’azienda lo manda via prenderà quattro volte tanto.
Stiamo scioperando perché da due anni siamo senza contratto nazionale, ma adesso che è ripartita la contrattazione l’azienda ha cancellato d’emblée il contratto di secondo livello, facendo ripartire da zero la negoziazione, cancellando le conquiste di anni. Da sempre abituati a lavorare per obiettivi, stiamo tornando in nome del recupero di produttività a un modello aziendale di tipo fordista, mentre apparteniamo a un settore tecnologico che si avvantaggerebbe di modi di lavorare diametralmente opposti.
Non si tratta dunque solamente di un sistema iniquo, che i sacrifici li impone solo ai dipendenti, si fa fatica a capirne i benifici aziendali.
Ma l’esempio più significativo dell’arroganza aziendale è stata la modalità di realizzazione del job center, uno strumento che avrebbe potuto essere utile, se attuato in modo diverso, consentendo di realizzare mobilità tra i settori in espansione e settori in crisi, prevedendo la riqualifica di professionalità non più attuali.
Ho visto così lavoratori dei settori di ricerca che si occupavano di tecnologie all’avanguardia come i Big data, la TV interattiva, le Smart city e l’IoT, softwaristi estremamente capaci, in un momento in cui il software sta diventando la base delle TLC, colleghi con tre lauree e master mandati a vendere servizi ai clienti business o cellulari nei negozi sociali, lavori per i quali non erano preparati. L’intervento dei sindacati ha fermato questi spostamenti insensati: si tratta di scelte che non si capisce se siano frutto di incapacità di valutazione o puri atti di tracotanza. Ma un’azienda che sta smontando la ricerca e l’innovazione che futuro si sta costruendo? Certo è che in tanti modi diversi si sta minando la dignità del lavoratore: anche quando non si perde il lavoro, se non ti è riconosciuto il valore di quello che fai e delle competenze acquisite, stanno facendo violenza alla persona e tutta l’azienda ne risulta impoverita. Da tempo vedo i lavoratori appassionati per il loro lavoro impegnarsi per il bene dell’azienda più di certi responsabili, troppo occupati a inseguire personali obiettivi che li vedono spesso occupati in lotte tra settori come “nobili” del vecchio sistema feudale. Molti ci dicono “Siete dei privilegiati ad avere il lavoro, di cosa vi lamentate”. È un pensiero pericoloso, perché avere un lavoro non è un privilegio, è un diritto che va difeso, sia individualmente, mantenendosi aggiornati in un mondo che cambia sempre più velocemente, sia collettivamente, cercando di contrastare uniti il crescente potere delle aziende. Siamo consapevoli che, se anche per il momento non si parla ancora di tagli, non difendere la propria professionalità e la propria azienda significa oggi subire umiliazione, domani perdere il lavoro, perché si diventa un numero in fretta cancellato. Siamo inoltre consapevoli che manifestiamo non solo per i nostri diritti, ma anche per quelli delle aziende del settore più piccole, e quindi con meno forza di noi, e anche per i lavoratori che verranno dopo di noi, perché perdere oggi certe battaglie significa rendere ancora più precaria e difficile la vita lavorativa di chi viene dopo di noi.
Simona Brugnoni