L’Italia è il paese dell’immobilità sociale, ci racconta il rapporto Censis 2016. E lo è secondo una doppia frattura, che riguarda sia le condizioni socio-economiche che la condizione anagrafica, come fotografato da un dato assolutamente impressionante: «l’immobilità sociale genera insicurezza, che spiega l’incremento dei flussi di cash. Rispetto al 2007, dall’inizio della crisi gli italiani hanno accumulato liquidità aggiuntiva per 114,3 miliardi di euro, un valore superiore al Pil di un Paese intero come l’Ungheria», scrive il Censis.
Una ricchezza, perciò, che esiste, ma che è “collocata” male, in maniera iniqua, e che genera rendite del cui godimento beneficiano in pochi: «con una incidenza degli investimenti sul Pil pari al 16,6% nel 2015, l’Italia si colloca non solo a grande distanza dalla media europea (19,5%), da Francia (21,5%), Germania (19,9%), Spagna (19,7%) e Regno Unito (16,9%), ma è tornata ai livelli minimi dal dopoguerra. Emerge una Italia rentier, che si limita a utilizzare le risorse di cui dispone senza proiezione sul futuro, con il rischio di svendere pezzo a pezzo l’argenteria di famiglia».
Sono questi i dati di un paese che rischia di fossilizzarsi, di non godere più dei benefici egualitari che genera la crescita economica, e che ha perciò bisogno di un drastico cambio di rotta nelle politiche economiche e lavorative, per far in modo che il capitale torni a essere benzina per il lavoro e quindi per la mobilità sociale. Non è un caso, appunto, che siano i giovani a risentirne di più, schiacciati dalla duplice morsa degli scarsi investimenti e della fragilità sociale e lavorativa. Sia sufficiente pensare alla diminuzione dei contratti a tempo indeterminato nei primi sei mesi del 2016 (21,3%, contro 32,4% del 2015) e al “boom” dei voucher: «277 milioni di contratti stipulati tra il 2008 e il 2015 (1.380.000 lavoratori coinvolti, con una media di 83 contratti per persona nel 2015)», dei quali ben «70 milioni […] emessi nei primi sei mesi del 2016».
Secondo il Censis è questo «il segnale che la forte domanda di flessibilità e l’abbattimento dei costi stanno alimentando l’area delle professioni non qualificate e del mercato dei “lavoretti”», ai quali si associa — come prevedibile — una bassissima produttività: «i nuovi occupati dall’inizio del 2015 sono associati a una produzione di ricchezza di soli 9.100 euro pro-capite. La produttività si è ridotta da 16.949 euro per occupato (I trimestre 2015) a 16.812 euro (II trimestre 2016). Se la produttività fosse rimasta costante, nell’ultimo anno e mezzo il Pil sarebbe cresciuto complessivamente dell’1,8% e non solo dello 0,9% come invece abbiamo registrato».
Si tratta di (non) cambiamenti che avevamo già registrato e che ci hanno spinto, nelle scorse settimane, a intervenire con numerosi emendamenti sulla legge di Bilancio, oltre che ad avanzare una proposta complessiva (e strutturale: basta bonus a pioggia!) tutta votata all’uguaglianza: dieci semplici punti, tutti con le relative coperture, per passare dalla rendita ai redditi, alla tutela del lavoro precario e alla lotta alla povertà.