La anormalità del lavoro culturale: la fase tre per cambiare le cose

La vera sfida è rendere le modalità di lavoro culturale sostenibili per chi le svolge. È considerare a pieno titolo chi svolge un lavoro culturale un lavoratore e una lavoratrice, con lo stesso diritto di tutti gli altri a vivere della propria attività, del proprio talento ma anche della propria formazione

[vc_row][vc_column][vc_column_text]In una situa­zio­ne cri­ti­ca per tut­ti, lavo­ra­to­ri e lavo­ra­tri­ci del­la cul­tu­ra e del­lo spet­ta­co­lo han­no paga­to e paghe­ran­no un prez­zo altis­si­mo. Sono set­to­ri spes­so con­si­de­ra­ti “essen­zia­li” solo a paro­le e non nei fat­ti, basa­ti su una miria­de di for­me con­trat­tua­li e retri­bu­ti­ve che tute­la­no pochis­si­mo digni­tà e pro­fes­sio­na­li­tà, crean­do un’estre­ma pre­ca­rie­tà che il biso­gno di adat­tar­si alle nuo­ve con­di­zio­ni di lavo­ro e di socia­li­tà non farà che peggiorare. 

La cul­tu­ra deve rein­ven­tar­si, pare esse­re la paro­la d’ordine, sen­za qua­si mai spie­ga­re che cosa signi­fi­chi quel “rein­ven­tar­si”. Tro­va­re nuo­ve solu­zio­ni per adat­ta­re del­le atti­vi­tà che non pre­ve­de­va­no il rispet­to del­le distan­ze di sicu­rez­za e anzi, spes­so inco­rag­gia­no il ritro­vo di mol­te per­so­ne in ambien­ti chiu­si, è però solo una par­te dell’equazione. 

La vera sfi­da è ren­de­re le moda­li­tà di lavo­ro cul­tu­ra­le soste­ni­bi­li per chi le svol­ge. È con­si­de­ra­re a pie­no tito­lo chi svol­ge un lavo­ro cul­tu­ra­le un lavo­ra­to­re e una lavo­ra­tri­ce, con lo stes­so dirit­to di tut­ti gli altri a vive­re del­la pro­pria atti­vi­tà, del pro­prio talen­to ma anche del­la pro­pria for­ma­zio­ne. Non un hob­by, non una “pas­sio­ne”, ma un lavo­ro (anche se svol­to con pas­sio­ne): fin­ché non sarà que­sto il pre­sup­po­sto di ogni ragio­na­men­to sul set­to­re cul­tu­ra­le, non sta­re­mo affron­tan­do il cuo­re del problema.

Il para­dig­ma del turi­smo cul­tu­ra­le di mas­sa, che ave­va già mostra­to le sue stor­tu­re e la sua aggres­si­vi­tà nei con­fron­ti del­la rete del patri­mo­nio cul­tu­ra­le, va ribal­ta­to: men­tre il model­lo impe­ran­te ci dice­va che ave­va­mo biso­gno di mostre-even­to, di con­cen­tra­zio­ni di per­so­ne tut­te negli stes­si posti nel­lo stes­so momen­to, di una con­ti­nua cor­sa alla con­ta dei bigliet­ti, la sicu­rez­za stes­sa del patri­mo­nio cul­tu­ra­le era a rischio. Ora che la sicu­rez­za in gio­co è la nostra, per­so­na­le e di comu­ni­tà, è l’occasione di por­ta­re nel dibat­ti­to pub­bli­co voci che fino a oggi sono sta­te ignorate. 

Que­sta è la nor­ma­li­tà che non deve tor­na­re, come abbia­mo riba­di­to in #Fase3.

[LEGGI “FASE 3. RIAPRIAMO LA POLITICA”]

Per que­sto vi invi­tia­mo a leg­ge­re e sot­to­scri­ve­re il Mani­fe­sto Per la Cul­tu­ra Bene Comu­ne e Soste­ni­bi­le, un impe­gno di respon­sa­bi­li­tà con­di­vi­sa che ver­rà con­se­gna­to al Mini­stro del­la cul­tu­ra e al Mini­stro del­l’Am­bien­te, auspi­can­do la nasci­ta di un pro­to­col­lo d’in­te­sa per favo­ri­re e incen­ti­va­re una pro­du­zio­ne cul­tu­ra­le sostenibile. 

Guar­da il video di lan­cio del Manifesto!

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Ma la gran­de par­te­ci­pa­zio­ne allo scio­pe­ro del 13 dicem­bre dimo­stra che la dimen­sio­ne col­let­ti­va del­la nostra lot­ta, del­le nostre riven­di­ca­zio­ni, non è perduta.