C’è una storia divertente, a proposito della nascita del logo del PD, e ha a che fare col fatto che i colori — il rosso e il verde — furono sottoposti a votazione, ma il bianco di sfondo non venne concordato, e creò qualche borbottio quando venne rivelato al pubblico nella composizione grafica che conosciamo. Viene da chiedersi quale altro colore si sarebbe potuto usare, ma a parte i richiami evidenti alla bandiera italiana, mentre rosso e verde venivano considerati colori comunque “di sinistra”, c’era qualcuno secondo cui il bianco avrebbe richiamato un po’ troppo la famosa balena dello stesso colore. Un dibattito che dice molto su quanto si è spesso discusso del nulla, in seguito, nel PD, ma è pur vero che la costruzione di un logo, per un partito appena nato, non è cosa da niente.
Ma il logo del PD non è solo la tricromia bianco-rosso-verde: non sono presenti riferimenti alla falce e martello, né allo scudo crociato, a dirla tutta nemmeno a garofani, rose, nessun petalo di margherita e nessuna ghianda di quercia, e nessun sole che ride a illuminare il boschetto. Quei simboli, provenienti da epoche diverse, avevano già trovato una sintesi precedente, e quella sintesi era l’Ulivo, la casa nuova in cui, dopo la fine della Seconda Repubblica, avevano trovato rifugio tutte le forze sane dei partiti che avevano fondato la Repubblica nel dopoguerra e che si riconoscevano nella Costituzione (che detta così suona un po’ brutale, ma non sempre si è potuto dire lo stesso del centrodestra, in questi venti anni).
Il ramoscello d’ulivo presente nel logo del PD è il riconoscimento di quell’esperienza, ed è riassuntivo di tutte quelle che già comprendeva: ed è curioso che così di rado sia ricordato, nei nostri dibattiti, e come molti preferiscano fare richiami a un passato molto più antico dimenticandosi, forse per cattiva coscienza, quello recente. Come in ogni evoluzione, noi siamo qui e siamo così anche per la somma delle esperienze che ci hanno preceduto. E non è passatismo, al contrario: solo avendo tutto questo ben presente, e sapendo separare il buono dal meno buono, e dal pessimo, si può essere davvero liberi di affrontare la sfida del futuro.
Tutto ciò per dire che quest’anno ne sono successe, di cose, e che in troppi cercano di collocare questo congresso fuori dal tempo e dallo spazio: negando la possibilità che si possa parlare del governo, e quindi negando la riflessione su cosa ci ha portati fin qui. Al governo delle larghe intese, passando per i 101 che affossarono Prodi, e con lui tutto un progetto politico che ci aveva impegnato di fronte agli elettori e che non abbiamo mai spiegato fino in fondo.
Nel 1996, l’Ulivo segnò la storia del centrosinistra italiano e vinse le elezioni anche grazie a una campagna vincente ideata da Roberto Parisi (copy), Roberto Gariboldi (art director) e Nicoletta Verga (account). Emanuele Pirella era il presidente di quell’agenzia, e insomma, per capirci stiamo parlando dei grandi miti dell’advertising italiano. Per questo, quando qualche settimana fa ci ha chiamato proprio Roberto Parisi, per proporci di rimettersi in squadra con Gariboldi e Verga per realizzare una campagna cover, beh, ci è sembrata un’idea bellissima, divertente, e anche molto appropriata rispetto alla strettissima cronaca di questi giorni.
Per realizzarla, stavolta, abbiamo scelto di fare un passo fuori dalla rete, dove si è svolta gran parte della comunicazione di questa campagna, e di comprare le affissioni vere e proprie. Di farlo a Bologna, città ulivista (e prodiana) per eccellenza, e di fare proprio lì, il 1° dicembre, una convention un po’ diversa dal solito, all’Estragon, tempio della musica live italiana, con concerto finale regalato alla città (dei Marta sui Tubi). Abbiamo provato a stuzzicare la curiosità dell’opinione pubblica bolognese, senza voler strafare: 15 manifesti in tutto. Pochi per una città così grande, ma lo scopo era che fosse notato almeno uno, e ci siamo riusciti.
Anche piuttosto in fretta, perché poche ore dopo la prima affissione, domenica scorsa, il Resto del Carlino aveva già pubblicato un primo articolo subito molto preciso nel attribuire a Civati l’iniziativa. Cosa che ci ha fatto molto pensare, perché evidentemente c’è qualcosa nella sua candidatura che richiama all’Ulivo più che nelle altre, sia detto senza offesa per nessuno. Ma è rimasta un’ipotesi, i giornali hanno preso a indagare in altre direzioni ed è scattato il passaparola, un po’ ovunque, anche in rete, dove è stato divertente seguire i commenti di militanti e dirigenti del Pd immaginare le ipotesi più fantasiose.
Poi, dopo pochi giorni (senza tirarlo per la giacchetta, perché non è mai stata questa l’intenzione), è arrivato il commento divertito e incuriosito del Professore, di Prodi in persona, ripreso un po’ da tutti. La soddisfazione più grande, e il segnale che potevamo passare alla fase due, quella dei nuovi manifesti (questa volta realizzati dal nostro grafico in distaccamento da Belgrado, Andrea Ghetti), quella della spiegazione, e del lancio del nostro evento bolognese del 1° dicembre.
Costo totale delle affissioni, 4.100 euro. Costi di agenzia, zero: nel senso che Parisi, Verga e Gariboldi si son divertiti a riunirsi (e peccato per Pirella, che nel frattempo è mancato), a ricostruire con gli stessi font e gli stessi colori materiali vecchi di 17 anni che non esistono più ma che evidentemente funzionano ancora, come ci racconteranno loro stessi in un prossimo post.
Noi, banalmente, volevamo ricordare ai nostri elettori che quel ramoscello tra la P e la D nel logo del Partito Democratico non è lì per caso, anche se spesso tendiamo a dimenticarcene, e che con tutti i brutti pasticci capitati quest’anno quello è un buon punto da cui partire, se si vuole cambiare tutto e andare verso il futuro. Speriamo di esserci riusciti, almeno un po’.