Due sere fa con Giuseppe Civati e Walter Tocci abbiamo dialogato sulle questioni che definiscono la qualità di un Paese più di ogni altra («la prima cosa», l’ha definita Civati): la scuola, l’università, la ricerca.
Con la sua consueta generosità, Tocci ha detto che considera la serata di ieri quasi un passaggio di testimone, sostenendo che sia compito di giovani leader come Civati prendere in carico questo tema e riportarlo all’importanza che merita.
Il senatore ha fatto un ragionamento planetario, chiedendosi perché — in una transizione epocale e difficile — l’Italia non abbia saputo farsi valere, come le è capitato in altre epoche storiche. Per Tocci il fallimento attuale è determinato certamente da progetti apparentemente innovatori (ma in realtà tipici della peggior conservazione), ma soprattutto e più in generale da un debito culturale che l’Italia ha accumulato, in un triplo ‑20% di investimenti, iscrizioni all’università e posti da ricercatore e professore.
Quasi scegliendo consapevolmente il declino, mentre altri facevano esattamente il contrario.
Per ciò si deve uscire dalla retorica e dalla superficialità che spesso accompagnano quel poco di discorso pubblico che in italia si fa sul nostro sistema della formazione e della ricerca e quindi dalla logica delle classifiche, perché a un Paese con un così basso tasso di laureati non servono due università tra le prime cento migliori del mondo, ma una grande rete di università di medio ed alto livello.
La stessa logica assurda per cui lo Stato si fa (giustamente) carico della formazione e della ricerca, ma ne privatizza i risultati, uno Stato che affida la sua sicurezza sismica all’INGV, ma non mette in sicurezza i suoi ricercatori precari, per citare un caso tra i molti che stiamo conoscendo nel nostro viaggio alla ricerca della ricerca (perduta).
Ci vuole una politica che non riforma dall’alto con un «editto» (vera traduzione del termine riforme di questi anni) ma che si pone a fianco dei «riformatori» che nelle scuole lavorano e li accompagna per estendere i risultati delle loro sperimentazioni e innovazioni, come è accaduto negli anni migliori della nostra Scuola.
Tocci ha ricordato come la Scuola italiana abbia affrontato (in solitudine rispetto alla politica) l’integrazione di 800.000 bambini, che venivano da tutte le parti del mondo, dando il meglio di sé, nonostante lo scarso sostegno in termini di risorse e programmazione dello Stato.
Ha indagato sulle difficoltà dell’Italia, a cominciare dalle privatizzazioni fatte senza pensare alla politica industriale e al suo patrimonio da tutelare e da tramandare, ma ha parlato anche delle difficoltà dell’Europa spiegandole a partire dal fallimento degli impegni di Lisbona e dal passo indietro negli investimenti sulla ricerca, nei quali l’Europa è scesa incredibilmente sotto gli standard mondiali. In uno schema di appropriazione monopolistica che ha ridotto «il merito», che dovrebbe vivere «di libertà e non di potere».
Il merito non può essere accentrato e è come la candela di Jefferson, che accende le altre, senza spegnersi («Chi riceve un’idea da me, ricava conoscenza senza diminuire la mia; come chi accende la sua candela con la mia riceve luce senza lasciarmi al buio») e la politica non può essere, come diceva Mino Martinazzoli, «incompetente della vita».
Con Tocci si entra finalmente in un futuro che dovrebbe essere già presente, di reale investimento (non solo economico, ma politico, culturale, sociale) sul sistema dell’innovazione e della ricerca. Un futuro che riparta dalle origini del nostro sistema accademico: il rapporto tra le città e il mondo, del reticolo favorito dal passaggio all’immateriale, in quel concetto di universitas che abbiamo smarrito e che rappresenta la vera vocazione del nostro Paese.