Ieri la Commissione europea ha pubblicato le Raccomandazioni specifiche per l’Italia, sulla base del Piano nazionale di riforma e del Programma di Stabilità presentato in aprile a Bruxelles dal nostro Governo, nel quadro del c.d. “Semestre europeo” (il ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio legato alla governance economica dell’Unione europea).
In questo contesto, per giustificare il senso di tali raccomandazioni, la Commissione ha anche presentato una fotografia del nostro Paese (Relazione per Paese 2016), che dovrebbe far riflettere.
In barba al refrain “il Governo del fare”, emerge prepotentemente che poco è stato fatto in questi ultimi due anni (basti confrontare le sei raccomandazioni specifiche del 2015 e le otto del 2014) e molto deve essere ancora realizzato sul fronte dell’efficienza della pubblica amministrazione e della buona gestione dei fondi europei, del rafforzamento del settore bancario, delle politiche attive del lavoro, della corruzione e della rimozione degli ostacoli alla concorrenza.
È vero, con la proposta – che dovrà essere approvata in via definitiva dal Consiglio a luglio – di concedere al nostro Paese tutti i margini di flessibilità richiesti lo scorso autunno per l’anno in corso la Commissione ha deciso di premiare i progressi registrati.
Per questo, tra i sostenitori del Governo in molti hanno gioito parlando di una presunta resa della cancelliera Angela Merkel alle pressioni di Matteo Renzi e di una Commissione europea che ha deciso di far prevalere le valutazioni politiche ai numeri, così evitando l’apertura di una procedura per deficit eccessivo a carico dell’Italia.
Eppure, a ben guardare, c’è ben poco da festeggiare. Per il 2016, si prevede un peggioramento del saldo di bilancio in termini strutturali dello 0,7% del Pil; l’alto livello di debito pubblico e la bassa competitività, entrambi radicati nella lenta crescita della produttività, sono ritenuti ancora eccessivi e soggetti a un livello di guardia massimo, che consente alla Commissione, in qualsiasi momento, di mettere il Paese nel “braccio correttivo” con il rischio di sanzioni.
La concessione in via eccezionale di margini di flessibilità per l’anno in corso (pari allo 0,85% del Pil) per coprire le riforme strutturali (pari allo 0,5% del Pil), gli investimenti (pari allo 0,25% del Pil), le spese per la gestione dei migranti (pari allo 0,04% del Pil) e, da ultimo, le spese per le misure antiterrorismo e la cultura (pari allo 0,06% del Pil), sarà pagata a caro prezzo da tutti gli italiani.
In cambio, si richiede infatti uno sforzo maggiore di consolidamento nel 2017, anno in cui l’Italia dovrà garantire un bilancio “globalmente conforme alle regole” — regole decise con il concorso del nostro Paese! -, ossia un deficit nominale dell’1,8% del Pil.
A tal proposito, giusto perché la situazione è seria, la Commissione ha quindi già fissato un “chiaro appuntamento” con l’Italia il prossimo ottobre, mese in cui andrà presentata a Bruxelles la bozza di legge di stabilità per il 2017 per il consueto vaglio di conformità.
Peraltro, per far onorare gli obiettivi di consolidamento, la Commissione suggerisce alcune misure dichiaratamente in contrasto con l’attuale politica del Governo, a cominciare da quella che chiede di spostare il carico fiscale dai fattori produttivi al consumo e alla proprietà, con buona pace dei sostenitori dell’abolizione dell’IMU. La Commissione suggerisce anche di accelerare l’attuazione del programma di privatizzazione, ridurre il numero e la portata delle spese fiscali, completare la riforma del sistema catastale entro la metà del 2017 e adottare misure per migliorare la compliance/conformità fiscale (peraltro, su questo punto la Commissione ha già fatto sapere al Governo che il previsto aumento dell’IVA non potrà essere cancellato a meno di misure compensative). Nello specifico, poi, si chiede di:
- rendere effettiva la riforma della PA attraverso l’adozione e l’attuazione di tutti i necessari decreti legislativi, in particolare quelli relativi alla riforma delle imprese pubbliche locali, dei servizi pubblici locali e della gestione delle risorse umane;
- intensificare la lotta contro la corruzione attraverso la revisione dei termini di prescrizione entro la fine del 2016, riducendo la durata dei procedimenti di giustizia civile con una gestione efficace dei casi e garantendo l’applicazione delle riforme;
- accelerare la riduzione dello stock di sofferenze bancarie, anche migliorando ulteriormente il quadro di insolvenza e il recupero crediti e completare al più presto l’attuazione delle riforme relative alla corporate governance nel settore bancario;
- attuare la riforma delle politiche attive del mercato del lavoro, in particolare attraverso il rafforzamento dell’efficacia dei servizi per l’impiego, facilitare l’impiego per i soggetti che costituiscono la seconda fonte di reddito familiare, adottare e applicare la strategia nazionale contro la povertà e rivedere e razionalizzare la spesa sociale;
- adottare rapidamente e applicare la legge in materia di concorrenza e prendere ulteriori iniziative per aumentarla nei settori delle professioni regolamentate, del trasporto, della sanità, della vendita al dettaglio e delle concessioni.
Certo, come ci ha ricordato Marco Zatterin ieri (“L’eterna battaglia delle pagelle Ue: i richiami della Commissione spesso ignorati”), queste Raccomandazioni vengono disattese per il 90% da quasi tutti gli Stati finiti nel mirino della Commissione perché non sono vincolanti. E pur tuttavia, rispettarle serve ad evitare quelle sanzioni che peserebbero poi su famiglie e imprese perché pagate da tutti.
Dovremmo tenere a mente, allora, che il fondo del contendere è più o meno sempre il medesimo: le regole europee, adottate con il consenso del nostro Paese, cercano di spingere chi ci governa a scelte politiche chiare e coerenti che consentano anche di far pagare meno tasse ai cittadini e rilanciare l’economia; chi ci governa, che sulle scelte non chiare e poco coerenti vive e guadagna consensi, cerca di impedirlo. Siamo sicuri che a furia di disattenderle, queste regole europee, gli italiani ci guadagnino qualcosa?