di Alessandro Tinti, Europa Possibile
Il 9 maggio il Parlamento Europeo riunito in sessione plenaria ha approvato a larga maggioranza la procedura d’urgenza proposta dalla Commissione Europea per incrementare la produzione di munizioni pesanti e accelerarne l’invio in Ucraina. Il piano, noto come Act in Support of Ammunition Production (ASAP), prevede lo stanziamento di un miliardo di euro a beneficio delle aziende produttrici di armamenti per avviare nuove linee di produzione e garantire l’approvvigionamento di munizioni. Nel minor tempo possibile, come suggerisce l’acronimo, tanto che la Commissione Europea ha invocato la procedura d’urgenza per accorciare i tempi della discussione parlamentare. Invece, il Parlamento avrebbe avuto bisogno di tempo per comprendere la portata di un provvedimento che trascina l’Unione Europea dentro “un’economia di guerra”, come espressamente ribadito dal Commissario europeo per il mercato interno Thierry Breton.
Fare presto per fare male. Secondo i dati del SIPRI, l’istituto di ricerca internazionale sulla pace di Stoccolma, nell’ultimo anno si è registrato il più forte aumento della spesa militare in Europa dalla Guerra Fredda. La corsa agli armamenti è però iniziata ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina: già nell’aprile 2021 il Parlamento aveva approvato un Fondo Europeo per la Difesa (EDF) da 7.9 miliardi di euro con l’obiettivo di foraggiare la ricerca e lo sviluppo di armi e tecnologie militari — e con buona pace dell’articolo 41, comma 2, del TUE che proibisce esplicitamente il finanziamento di operazioni che hanno implicazioni nel settore militare o della difesa con il bilancio dell’Unione. Per aggirare l’ostacolo, con l’EDF prima e l’ASAP ora, si è pensato di dare una facciata di legittimità attraverso l’art. 173 del TFUE che definisce le competenze dell’Unione nell’ambito delle politiche industriali. Si tratta di una forzatura giuridica, ma che se non altro illumina i reali beneficiari di questo enorme effluvio di denaro pubblico: le imprese del comparto bellico, che hanno sussurrato al Commissario Breton il nuovo pacchetto di misure per rilanciare il settore.
Mentre l’Unione Europea fatica a ritagliarsi un ruolo per la soluzione negoziale del conflitto in Ucraina e ha perso per strada la sua missione di potenza civile, la Commissione ha intanto staccato un assegno in bianco a favore dei grandi produttori europei di armamenti. Uno degli aspetti più allarmanti del piano è che le aziende del settore potranno attingere ai fondi strutturali del bilancio europeo, così come a quelli stanziati per il PNRR. Come ha spiegato Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne di Rete Italiana Pace e Disarmo, la conseguenza è che per premiare gli industriali delle armi si dovranno tagliare risorse ai fondi di sviluppo regionale, sociale e di coesione, ossia a quelle risorse volte a ridurre le disparità economiche e territoriali, a migliorare l’occupazione e le opportunità di lavoro, a contrastare povertà ed esclusione sociale, a garantire possibilità di formazione e istruzione, a rafforzare l’uguaglianza di genere e il benessere delle persone. Come se non bastasse, il piano consentirà alle aziende di derogare alle normative comunitarie in tema di orario di lavoro, autorizzazioni ambientali e contratti pubblici.
È l’economia di guerra, che dalla guerra genera profitti. È il vuoto della politica, asservita ad interessi di parte. Benché l’iter accelerato preluda ad un voto favorevole nella prossima plenaria, chiediamo ai gruppi parlamentari un atto di lungimiranza e responsabilità: bloccare il piano di sovvenzioni all’industria bellica e rimettere al centro dell’azione europea la costruzione di un percorso di pace per la cessazione del conflitto in Ucraina.