Riassumere in poche righe l’impatto che, esulando dagli aspetti prettamente economici su cui i media si sono concentrati eludendo paradigmaticamente le altre problematiche, questi mesi di pandemia hanno avuto sul nostro quotidiano è ovviamente impossibile, sia per la parzialità di una visione soggettiva (non scordiamoci “tutte le famiglie felici si assomigliano ogni famiglia infelice lo è a suo modo”…), ma soprattutto per la complessità delle ramificazioni attraverso cui il virus ha “infettato” ogni luogo reale e metaforico del nostro vissuto, complicandone all’ennesima potenza lo svolgimento. Dovessi tuttavia trovare una sintesi, questa potrebbe essere la contrapposizione fra fragilità ed antifragilità. La recentissima lettura del saggio di Nassim Nicholas Taleb — così intitolato appunto: “Antifragile” — attraverso le cui categorie è facile un’ermeneutica del presente come rimozione di ciò che fatica ad adattarsi, si spezza facilmente cedendo alla pressione del non previsto e prevedibile, mi ha fatto ulteriormente comprendere quanto tutto quello che possiamo connotare come fragile, dalla salute all’ambiente, dalle marginalità alla disabilità, non appartenga alle priorità della nostra attuale civitas.
Per chi come me si è collocato fuori dal contemporaneo agonismo, intraprendendo un percorso più simile ad una corda sospesa che ad una strada ben asfaltata, il rischio di precipitare si è amplificato a dismisura, senza che ciò sia stato per nulla riconosciuto a nessun livello.
Mi spiego meglio: svolgo il ruolo di caregiver familiare da otto anni fra difficoltà oggettive ma anche psicologiche. Le responsabilità, le competenze, la presenza continua che vengono richiesti sono stati e continuano a tutt’oggi ad essere completamente ignorati dalla nostra legislazione, salvo qualche “boutade” ogni tanto priva di qualsivoglia concretezza applicativa, escludendo così sistematicamente i cosiddetti caregivers da ogni tutela e dal riconoscimento di una qualifica professionale. Che questo ruolo si sia ulteriormente caricato di ostacoli, tensioni, ansie in questo periodo, penso sia lampante, eppure nessuno ne parla, nessuno strumento è stato fornito a supporto di molteplici problemi. L’argomento si sfiora solo nel momento in cui, scorrendo la platea dei possibili contagi, si sottolinea — come fa un recente articolo della “Nuova Ferrara” — da cui si origina la mia riflessione, agganciandosi a recenti fatti di cronaca, la solitudine di quelle famiglie che dovendosi rivolgere anche solo sporadicamente ad un’agenzia per avere un supporto nella gestione di una disabilità o solo di una momentanea difficoltà, si rischiano conseguenze che potrebbero essere incalcolabili.
Rivolgendomi a chi ha a cuore con lucida sensibilità tante situazioni poco foriere di consenso populistico ma pregne di significato politico nel senso più alto della parola, mi chiedo il perché di una “privatizzazione” così evidente di tali emergenze sanitarie e sociali.
Voglio dire, se già è inaccettabile che la disabilità di un familiare, quali ne siano i motivi, nel mio caso una violenta rapina, sia a carico esclusivo di chi sceglie di farsene cura (magari a costo di grosse rinunce in primis lavorative ma non solo), cosa dire di ciò che sta succedendo ora che tutto, da una visita medica alla spesa , si è complicato in maniera tale da trasformare un gesto quotidiano in un rischio?
Lavinia Mainardi