“Siamo in un momento critico riguardo i nostri sforzi collettivi per limitare il pericoloso riscaldamento globale. Entro la fine del prossimo decennio saremo su uno di due percorsi: uno è il percorso della resa, su cui abbiamo camminato dormienti oltre il punto di non ritorno, mettendo a rischio la salute e la sicurezza di tutti su questo pianeta. Vogliamo davvero essere ricordati come la generazione che ha nascosto la testa sotto la sabbia, che ha temporeggiato mentre il pianeta andava a fuoco? L’altro è il percorso della speranza. Un percorso di determinazione, di soluzioni sostenibili. Un percorso in cui tutti i combustibili fossili rimangono dove dovrebbero stare, sottoterra, e dove saremo a buon punto per raggiungere la carbon neutrality entro il 2050.”
Era iniziato così, con un discorso di altissimo profilo di Antonio Gutérres, Segretario Generale dell’ONU, la COP25, la Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico di Madrid, conclusasi oggi.
Un discorso di altissimo profilo cui purtroppo non sono seguiti i risultati sperati, in quella che era forse l’ultima possibilità di trovare un accordo per il conseguimento a livello globale degli obiettivi dell’Agenda 2030.
Nonostante promesse e aspettative, la conferenza si è arenata in un dibattito oscuro, su terminologie e tecnicismi, perdendo di vista l’obiettivo di arrivare un piano globale per ridurre le emissioni.
E allora, mentre Greta Thunberg — intervenuta in conferenza stampa il 9 dicembre — ricordava che l’emergenza climatica non ha effetti “sul futuro” perché ne ha già “sul presente”, l’Arabia Saudita contestava l’uso del termine “emergenza”, negando l’urgenza di qualsivoglia provvedimento o azione.
Mentre Carlon Zackhras, un ragazzo proveniente dalle isole Marshall, alle prese con l’innalzamento delle acque, faceva notare che già adesso per loro “l’unica soluzione è andare più in alto — come successo a 200 famiglie della sua zona solo poche settimane fa — o emigrare”, rimane aperta la questione dei cosiddetti “loss and damage”, il meccanismo attraverso il quale i paesi ricchi — maggiori responsabili della crisi climatica — dovrebbero aiutare chi subisce sulla propria pelle gli effetti della crisi.
E così, in queste ore, è arrivata la notizia del fallimento delle trattative sull’articolo 6, quello riguardante la regolazione globale del mercato del carbonio. Il nodo più difficile da sciogliere — certo — ma anche uno di quelli decisivi. Di fronte all’emergenza, nessuno — se non i leader dei paesi già esposti agli effetti della crisi — ha mostrato un impegno a ridurre le emissioni, fingendo di ignorare gli effetti di rimandare le decisioni alla prossima Cop.
Rimane, come dato positivo, l’impegno dell’Unione Europea per la riduzione delle emissioni, e per il raggiungimento della “carbon neutrality” entro il 2050. Un piano ambizioso, con un fondo da 100 miliardi da destinare alle regioni e ai settori più vulnerabili per favorire la riconversione energetica di tutta l’industria europea e oltre 50 azioni da realizzare entro il 2050: un piano su cui bisognerà comunque vigilare attentamente perché venga attuato, a causa delle resistenze di alcuni governi europei.
Rimane, alla fine di questa COP25, soprattutto una sensazione: quella che le attiviste e gli attivisti che ogni settimana ormai da più di anno chiedono azioni concrete contro l’emergenza climatica siano più lungimiranti di chi dovrebbe rappresentarci, loro e noi tutti.
E che una rivoluzione ecologista non sarà davvero possibile se le trattative continueranno a essere affossate dagli interessi dei poteri fossili e da quelli — di breve termine — di alcuni stati nazionali, non intenzionati a ridurre le emissioni nonostante una minaccia ogni giorno più visibile.
Intanto, il rischio di “essere ricordati come la generazione che ha nascosto la testa sotto la sabbia, che ha temporeggiato mentre il pianeta andava a fuoco” - come diceva Guterres nel suo discorso di apertura - è sempre più concreto.
Intanto, il tempo continua a passare.