Ho letto, su “La Stampa” del 26 luglio, un articolo in cui Gualmini invita le minoranze a non interferire nel lavoro della maggioranza.
Lo schema del ragionamento mi pare francamente difficile da seguire.
Le minoranze hanno modo- devono avere modo — di fare valere la loro posizione attraverso regole (che non derubricherei con insofferenza, come ormai spesso accade, a “cavilli”) poste dallo stesso ordinamento per fare in modo che la loro posizione possa adeguatamente emergere e divenire in prospettiva maggioranza (a meno che non si tratti di minoranze permanenti per le quali sono previste regole di protezione differenti, come ad esempio quelle sulle minoranze linguistiche: A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, Einaudi, 1993).
Non sono certamente le minoranze a doversi preoccupare che la maggioranza riesca ad affermarsi. Questo sarebbe francamente troppo.
Infatti, le suddette regole assicurano che la maggioranza, se è veramente tale, possa alla fine assumere la decisione. Se non lo è — o non lo è in alcuni passaggi — la decisione non viene assunta. Non perché le minoranze frenano o sabotano, ma perché la maggioranza, in realtà, non è tale. Se, invece, la maggioranza è effettivamente tale, essa può decidere, ma a seguito di un reale confronto con la minoranza. Altrimenti quest’ultima finisce per essere semplicemente esclusa dal percorso istituzionale e – umiliata – non riuscirà ad accettare quella che non sarebbe più una decisione a maggioranza ma una prepotente imposizione.
Le tre questioni accomunate da Gualmini (nell’ordine, Alitalia, Teatro dell’Opera, Senato) sono, in realtà, molto differenti tra loro. Francamente provo molto imbarazzo a vedere affiancate le istituzioni repubblicane (e segnatamente il Parlamento) a questioni relative a una compagnia di bandiera o a un teatro, per quanto molto importanti.
Conosco meno le altre due questioni, ma sul Senato, ad esempio, non si è verificata né si sta verificando alcuna “resistenza” alla riforma. Semplicemente il Governo prosegue nel tentativo di imporre una riforma che non aveva la maggioranza (altra era la proposta di SEL, 5stelle, ex-5stelle, una parte del PD, una parte di FI, una parte di NCD) e che probabilmente la avrà solo a seguito di una serie di forzature e drammatizzazioni (tanto che molti dicono che la riforma non è buona, ma è sempre meglio di nessuna riforma, come se l’alternativa non potesse mai contemplare una buona riforma. Chissà perché).
D’altra parte c’era la possibilità di pervenire, partendo dalle proposte della minoranza PD e di altri, a un testo condiviso che sarebbe stato approvato probabilmente già ora (perché non avrebbe richiesto nessuna sospensione dei lavori durante la campagna per le europee) o comunque – senza drammatizzazioni – nei prossimi mesi e che avrebbe realizzato ciò su cui tutti sono d’accordo: una differenziazione delle Camere, con fiducia al Governo solo da parte dei deputati e uno snellimento dell’attività legislativa, con una forte riduzione del numero dei parlamentari (e delle loro indennità), mantenendo però una adeguata rappresentanza dei cittadini (i cui strumenti di partecipazione sarebbero stati anche rafforzati) e così un più corretto equilibrio istituzionale.
Alla luce di alcune recenti impostazioni, credo sia il caso di valutare con più attenzione il ruolo della minoranza (o delle minoranze) e della maggioranza, perché tra il principio di maggioranza e quello della clava c’è una profonda differenza e la sua spiegazione sta nella storia e nel significato stesso del costituzionalismo.