[vc_row][vc_column][vc_column_text]Il paradosso, va detto subito, è che la normativa “contro le fake news” annunciata con grande clamore da Matteo Renzi alla Leopolda, e ripresa subito da tutta la stampa italiana senza alcuna verifica, rientra essa stessa nella categoria delle fake news.
Perché non prende in alcuna considerazione le notizie false, in tutto o in parte, con invenzione di fatti o dichiarazioni od omissione di altri fatti o di altre dichiarazioni, ma provenienti da qualsiasi fonte che possa essere dichiarata “media”, cioè siti di giornali, agenzie di stampa oppure riferibili ad organismi istituzionali come gli stessi partiti politici.
La definizione generalmente condivisa di “fake news” infatti è la seguente:
“Fake news is a type of yellow journalism or propaganda that consists of deliberate misinformation or hoaxes spread via traditional print and broadcast news media or online social media.”
La normativa annunciata si limita invece a intervenire su due — sì, avete capite bene: due — social networks, cioè Facebook e Twitter, obbligando gli stessi, pena sanzioni salatissime, ad effettuare controlli, e conseguenti rimozioni di contenuti, in tempi brevissimi (su Instagram e su Youtube continuerà a valere tutto, per dire).
Questo significa che la normativa altro non farà che perseguire, in via indiretta, uno spicchio minimo della disinformazione, guarda caso quello non tutelato e soprattutto meno credibile.
Ad esempio i media nazionali che hanno pubblicato le notizie risultate false o non confermate su una presunta sposa bambina di Padova, oppure sulla presunta stanza del fumo in un liceo romano, poi condivise e strumentalizzate da politici, non saranno perseguibili con questa normativa, ma paradossalmente potrebbe essere multato il social network per non aver rimosso un post di una persona fisica (non necessariamente Matteo Salvini, ci sentiremmo di scommettere) che si sia limitato a condividere magari l’editoriale di Mattia Feltri, sulla sposa bambina, senza verificare la successiva smentita.
I social media vengono colpiti come se fossero editori, e di conseguenza viene colpita, indirettamente, la libertà di espressione del singolo individuo, con un sistema quindi doppiamente anticostituzionale.
Il controllo sui contenuti non verrebbe esercitato dalla Pubblica Autorità, ma dallo stesso ente privato, sulla base di “segnalazioni” e secondo criteri del tutto discrezionali, con l’unico scopo (sostiene la relatrice Rosanna Filippin) di “evitare il fenomeno della condivisione”.
Sempre dal punto di vista giuridico, non è chiaro (non essendo disponibile il testo) se la rimozione debba avvenire in presenza di un reato conclamato e chi abbia titolo per richiederla.
Negli articoli di stampa vengono elencati la diffamazione (unico reato tipico ma perseguibile a querela), ma anche minacce, stalking, pedopornografia, trattamento illecito dei dati personali, reati appunto che, ove commessi, pare di capire, attraverso un post sui social, potrebbero determinare una sanzione ai social ove non rimossi.
Ma si dice anche che potrebbe essere il Pubblico Ministero a chiedere la rimozione dei post che rappresentino la commissione di altri reati gravi, come quelli contro la sicurezza nazionale, il terrorismo, l’eversione dell’ordine democratico e l’apologia del fascismo, l’istigazione a delinquere, l’associazione mafiosa e l’offesa a confessioni religiose.
Si perdoni l’ingenuità, ma crediamo di poter affermare che sia già piena facoltà dell’Autorità Giudiziaria quella di rimuovere, senza chiedere il permesso o la compartecipazione del social network, un post di propaganda jihadista o di eversione dell’ordine democratico, e ciò dovrebbe valere anche per la pedopornografia, le minacce e lo stalking.
Tanto per stare nel campo delle fake news.
In realtà l’unico reato che realmente interessa, parlando di fake news, è la diffamazione aggravata come se fosse avvenuta a mezzo stampa, essendo il social network pacificamente inteso come tale dalla giurisprudenza.
Ma l’intervento legislativo anche in questo caso appare superfluo, poiché già l’ordinamento consente al singolo danneggiato di chiedere la rimozione del post che lo riguarda, e già consente al singolo di agire nei confronti anche della piattaforma, oltre che del responsabile ovviamente, per il risarcimento del danno qualora la richiesta non sia stata presa in esame e la diffusione intervenga anche per responsabilità della piattaforma.
L’altro aspetto volutamente dimenticato, che probabilmente risolverebbe a monte il problema, riguarda i profili fake, cioè falsi e non riferibili a persone determinate (che invece pare sia preso in considerazione dalla normativa tedesca alla quale questo modello si ispira).
Basterebbe obbligare le piattaforme a chiedere, in sede di iscrizione e di apertura di un profilo, una fotocopia di un documento di identificazione per ridurre in modo esponenziale la diffamazione, consentendo così all’Autorità Giudiziaria di perseguire in tempi brevi il relativo reato oppure al danneggiato di richiedere il relativo risarcimento.
Quello che servirebbe veramente, dal punto di vista giuridico, è consentire all’Autorità Giudiziaria di svolgere il proprio lavoro in modo più semplice, immediato e proficuo, lavoro che non può essere subappaltato a chissà chi all’interno di due piattaforme social, possibilmente rimanendo all’interno del dettato costituzionale.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]