[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1501593815550{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]Se ne è accorto anche Il Sole 24 Ore — non è tutto oro quello che luccica: i contratti a tempo determinato toccano la ragguardevole cifra di 2,69 milioni, il livello più alto dal 1992!
Sebbene sia normale in una dinamica di crescita economica (sempre però inferiore alla media europea) avere un incremento del lavoro precario nel breve periodo, i numeri — ancora una volta — ci restituiscono una tendenza chiara e limpida.
Prendiamo a riferimento il periodo di marzo 2015 (non è casuale, lo sapete: in quel mese venne approvato il Decreto Legislativo n. 23/2015, asse portante della riforma del lavoro di Renzi). In quel mese, i 16,8 milioni di lavoratori dipendenti erano ripartiti per l’86.2% a tempo indeterminato e per il 13.8% a tempo determinato. Rispettivamente 14,5 milioni contro 2,3 milioni.
A giugno 2017, la situazione — nonostante la rumorosa grancassa governativa — fotografata dai numeri ISTAT mette i lavoratori stabili a quota 14.97 milioni e i lavoratori precari — come detto — al record degli ultimi venti anni, a 2.69 milioni. La partizione è quindi scesa a 84.8% vs. 15.2%.
Per darvi un’idea di come stavano le cose molti anni fa, ad esempio nel Gennaio 2004, questo indicatore era stabilito in 88.7% contro 11.3%. Da Marzo 2015, i lavoratori a tempo indeterminato sono cresciuti del 3%; i lavoratori a tempo determinato del 15%, con un rilevante +7% da gennaio ’17.
Non c’è bisogno di specificare che l’optimum verso cui tendere dovrebbe essere lo scenario di gennaio 2004 e non quello odierno, ma tant’è: anche questa volta pare che non vi siano le condizioni per poter accogliere il significato di questi numeri con la dovuta accortezza.
Naturalmente, senza un percorso di inserimento, questi lavoratori sono destinati a restare nel limbo dell’incertezza. Serve un reale contratto unico a tutele crescenti (che crescono per essere davvero tutele, come quando c’era l’articolo 18), che ponga in essere percorsi di inserimento professionale e integri e superi le altre forme contrattuali precarie. Qualcosa che — evidentemente — non potrà mancare nel Manifesto di Possibile.
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