[vc_row][vc_column][vc_column_text]Si sa che la «politica» è andata assumendo negli ultimi anni un significato sempre più negativo. Ben prima che fosse in voga l’antipolitica. I motivi sono infatti profondi e non si lasciano ridurre – come qualcuno potrebbe supporre – alla corruzione e all’uso illecito della rappresentanza.
Il neoliberalismo, con le sue leggi del mercato, spacciate per fatti naturali, ha svolto un ruolo decisivo. Anzitutto perché ha spinto a credere che la storia sia giunta al suo orizzonte ultimo e che questo orizzonte coincida appunto con la società liberale. Oltre non ci sarebbe, né potrebbe esserci nulla. L’immaginazione si arresta e si avvizzisce. Nella migliore delle ipotesi si può auspicare un freno socialdemocratico alla globalizzazione liberale che ne attutisca gli effetti esiziali, che smorzi le disuguaglianze, che mitighi le ingiustizie. Se dunque non si può aspirare a un oltre, se non resta che la marcia del progresso, dettata dall’accelerazione liberista, allora si intuisce che la politica si limiti a essere esercizio di governance, mera amministrazione, pratica burocratica. Sempre meno critica, sempre più normativa, questa politica si gloria dei «risultati concreti», si vanta il buon funzionamento come valore in sé.
Scade perciò a politica intesa come policy, polity, polizia, risposta poliziesca, soluzione securitaria a ogni problema. Il Security State è il risultato di una politica ridotta a mera amministrazione, che promette di rassicurare, proteggere, difendere i cittadini. E trova qui la sua legittimità. Ma è inutile dire che questo Stato promette quel che non riesce a mantenere. Riconosce, anzi, la sua impotenza, abbandonando spesso i cittadini a rischi e pericoli, in nome dell’emergenza e dell’apparente ineluttabilità degli avvenimenti. Il liberalismo è l’ideologia di questo abbandono. I disastri della globalizzazione, l’incertezza economica, la precarietà, le catastrofi ecologiche, vengono contrabbandati come fenomeni ineluttabili.
Se si tratta solo di governance, cioè di amministrare, gestire, regolare, tanto vale affidarsi agli esperti. Insieme all’impossibilità di immaginare un orizzonte, nella storia, al di là del liberalismo, ha pesato sulla politica il modello tecnico-scientifico, assunto in modo inconsapevole e pedissequo anche da molta sinistra. Come se il progresso fosse sempre un valore positivo. Ma la razionalizzazione tecnica della vita ha effetti spesso devastanti, e finora in parte sconosciuti. Mentre vengono premiate le capacità di adattamento, sono invece penalizzate le potenzialità creative e la capacità di giudicare. Nel chiuso laboratorio della terra, dove si restringe lo spazio di ciò che accomuna, non sorprende che a dominare sia la ragione economica.
La razionalizzazione tecnica della vita è un potenziamento dei mezzi di controllo che ha provocato un enorme disorientamento nella scelta dei fini. Anzi, il rapporto tra mezzi e fini è stato del tutto stravolto. E lo stravolgimento ha investito tutte le forme della nostra vita dove si gode dei poteri straordinari che la tecnica offre, dove rispetto a prima si può fare molto di più, ma questo «di più» mette del tutto in ombra quello che non si può fare più fare e forse non è neppure quello che si voleva fare.
Così si finisce per rimettere le proprie scelte nelle mani di chi conosce meglio i mezzi: dell’esperto. Beninteso l’esperto non è lo scienziato, bensì chi da quest’ultimo acquisisce i dati. Tuttavia l’esperto ha una funzione chiave, perché media tra scienza e prassi. Non c’è ambito in cui non sia richiesto. Contribuiscono a determinare l’importanza senza precedenti di questa figura sia l’iperspecializzazione della scienza sia la complessità crescente che rende ardua ogni decisione. Ecco perché il politico si rivolge di buon grado all’esperto.
Dalle questioni finanziarie ai problemi di strategia militare, dagli interrogativi ecologici ai processi sulle sofisticazioni alimentari, dai grandi affari giudiziari, dove sono in gioco gli interessi delle multinazionali del petrolio o della siderurgia, agli ambiziosi progetti spaziali, dalla bioetica alla nanotecnologia, ovunque l’esperto è interpellato, ovunque pesa il suo responso. Dato che viene preso come la voce della scienza, il suo giudizio è un responso definitivo, la sua autorità è incomparabile. Si staglia già sovranamente nella sfera oscura dell’eccezione.
Versione contemporanea dell’oracolo, capace di divinare il futuro, ma anche di articolare verdetti sul presente, indicando il giusto modo di agire perfino alla pólis, l’esperto interpreta non il volere degli dèi, bensì la volontà attribuita alla scienza, o meglio, a tutte quelle discipline, dall’economia alla medicina, che spesso surrettiziamente rivendicano un titolo scientifico. Certo l’esperto è il depositario di un sapere determinato, e come tale va ascoltato; ma non è detto che abbia più esperienza e saggezza di altri. L’errore è lasciargli l’ultima parola. L’effetto devastante è la deresponsabilizzazione dei più che si privano della possibilità di agire e di scegliere i fini comuni
E la politica? Se appare subordinata all’economia, ridotta a mera amministrazione burocratica, è anche perché ha assunto il paradigma della scienza. Si parla di «ordine mondiale», perché si immagina che si possa pianificare e realizzare, secondo una razionalità crescente e progressiva, un mondo ordinato, efficiente, trasparente. È un ordine esibito idealmente dalla scienza, imposto dalla economia, osservato dalla politica, a cui è richiesto di uniformarsi. Il buon funzionamento è già un valore in sé, a prescindere da ogni contenuto specifico. Inutile dire che il disordine, sotto questo aspetto, è ciò che impedisce la razionalità economica. Già da tempo «politica di sviluppo» è un eufemismo per indicare la programmazione razionale del mondo, dove ogni contrasto e ogni contrarietà – si pensi alla migrazione – sono visti come una indebita interferenza, un ostacolo da eliminare.
Non importa che nel mondo ci sia giustizia, uguaglianza, solidarietà – importa, invece, che il mondo venga perfettamente amministrato. I fini scivolano sullo sfondo, vengono persi di vista, mentre il mezzo del governo finisce per determinare il governo stesso.
La politica scade a conoscenza pratica e il politico diventa l’esperto degli esperti, il fisico della società, l’ipertecnico che dovrebbe saper amministrare con efficienza e rapidità, ma non sa più perché, né a qual fine, che, anzi, non sa più scegliere. Il compito della politica si riduce a quello di mettere a posto il mondo che per la prima volta viene considerato l’oggetto di una produzione scientifica razionale. In questa politica normativa quel che conta è l’ordine per l’ordine, la perfetta amministrazione, il cui ideale è la neutralità e che, anzi, non ha più ideali. La filosofia italiana contemporanea parla oggi di «impolitico» per sollecitare un nuovo valore di «politica» che sappia pensare oltre i confini del liberalismo.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]