Il 30 aprile rappresenta la prova del nove per il governo Draghi e per la scuola italiana: solo allora capiremo se la politica di questo paese ritiene che l’istruzione sia una priorità e incarni il valore fondativo della democrazia e della cittadinanza di tutti e di tutte. Corrisponde alla data di consegna della versione definitiva del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, o Recovery Plan.
Dei 191,6 miliardi di euro stanziati dall’Europa per la ripresa dell’Italia, 28,49 saranno destinati all’istruzione e alla ricerca, in base alle affermazioni dell’ex ministra Azzolina dello scorso mese di gennaio. In altri paesi europei, la cifra riservata a questi capitoli di spesa è maggiore.
Il quanto è inscindibile dal come si vuole spendere la porzione di fondi destinata alla scuola, ed è qui che attendiamo di conoscere i contenuti specifici del programma del governo Draghi. I colpi di coda del coronavirus peseranno ancora a lungo sulla persona che bambini e bambine, ragazzi e ragazze, vorranno diventare.
Eppure non era difficile prevenire molti degli effetti collaterali negativi che il confinamento ha avuto sulla scuola. Fornendo assistenza psicologica adeguata, per esempio, anziché negare o minimizzare gli stati di depressione diffusa, l’autolesionismo, i disturbi alimentari esplosi tra gli studenti; ammettendo finalmente che la scuola di oggi è per metà contenuti e per metà gestione dell’emotività e dell’affettività, perché solo così può mediare con la realtà che la circonda e dotare ragazzi e ragazze degli strumenti per affrontarla e modificarla; lasciando cadere le polemiche sui banchi a rotelle – sono utili, ma per ricavarne il migliore rendimento ci vogliono metodologie nuove, quindi una formazione docente rinnovata dalle fondamenta- e sforzandosi invece di tener aperte le mense, che assicurano almeno un pasto caldo a 160.000 bambini e bambine provenienti da famiglie in situazione di disagio economico; impiegando fin da subito ogni mezzo per non lasciare indietro quegli 850.000 alunni e alunne (“stima per difetto”, indica Carlo Verdelli nel suo editoriale del 2 aprile sul Corriere della sera) che con la DAD non hanno mai sfiorato una tastiera, perché sprovvisti in vario modo dei requisiti per accedervi. Molti di loro nati in altre zone del mondo (l’abbandono scolastico nel 2019 riguardava ragazzi e ragazze italiani nell’11,3% dei casi, ma già si triplicava ‑36,5%; dati del SISform- per i non nati in Italia). E ancora, pigiando l’acceleratore sulla vaccinazione dell’intero personale scolastico; installando sistemi di controllo, ricambio e depurazione dell’aria; e, non ultimo, se vogliamo ragazzi, ragazze e insegnanti a scuola d’estate, non dimenticando che l’aria che respirano, oltre a dover essere libera dal virus, deve avere una temperatura accettabile per il corpo umano.
L’umano non è un numero — sebbene da molti anni la classe dirigente si sia impegnata a voler plasmare scuola e società a immagine e somiglianza dell’andamento dei mercati. Non è un numero, ma in questo mese di aprile il futuro della Next Generation dipende da una data e una cifra, ancora vuote di programmi: giorno 30, 191,6 miliardi di euro. È vertigine e, al tempo stesso, un infinito orizzonte di possibilità di riscatto per i giovani che più deprivazioni hanno sofferto, nei loro bisogni essenziali, negli ultimi 12 mesi.
Monica Bedana