di Roberta Burroni
Sta emergendo in maniera sempre più evidente nella nostra Pubblica Amministrazione l’esistenza di un fenomeno, pur non direttamente assimilabile all’americano “great resignation”, che ha le sembianze di una “grande fuga”.
La fenomenologia è chiara, a partire dal flop che sta connotando la campagna di assunzioni nei vari settori della PA, ormai certificata anche nei consessi più autorevoli come quello del Forum PA avvenuto a Roma nel giugno di quest’anno: per i grandi concorsi svolti tra il 2019 e il 2021, solo “30 su 55 si sono conclusi” e sono “solo 14,5 mila i posti assegnati su 103 mila a bando”.
«I dipendenti pubblici italiani sono fermi a 3,2 milioni, lontani dai 5,7 milioni della Francia, 5,3 milioni del Regno Unito e 5 milioni della Germania. Hanno un’età media di 50 anni. […] per raggiungere l’obiettivo di 4 milioni di dipendenti con un’età media di 44 anni e competenze adeguate fissato entro il 2028 dal ministro Renato Brunetta, considerando anche i previsti 500mila pensionamenti, entro 6 anni bisognerebbe assumere quasi 1,3 milioni di persone, circa 200 mila ogni anno, con un’età media di 28 anni». Tutto ciò in un contesto in cui il rapporto tra numero di cittadini e pubblici dipendenti è già critico: sono 19 i cittadini per ogni pubblico dipendente nel nostro paese, contro gli 11 in Francia e i 16 in Germania. Non solo. Oltre alla scarsa partecipazione ai concorsi, si assiste al fenomeno delle dimissioni dei neoassunti. Dimissioni che giungono dopo pochi mesi dall’entrata in servizio.
Possiamo disquisire se si tratti di “grandi dimissioni” o di “transizioni occupazionali”, ovvero se, a fronte di un’offerta di assunzione ampia nell’ambito di vari livelli e settori della PA, molti partecipanti risultati vincitori — o comunque entrati in varie graduatorie concorsuali — abbiano avuto semplicemente la possibilità di scegliere tra i vari enti e servizi quelli a loro più convenienti per retribuzione e livello, per ruolo, per possibilità di carriera, vicinanza a casa, possibilità di conciliazione vita-lavoro, welfare offerto, ecc. Sembra quasi una cannibalizzazione tra enti, una sorta di dumping tra pubbliche amministrazioni, dove spesso, a parità salariale, corrispondono ruoli e responsabilità assai diverse. Senza parlare poi dei settori e delle aree tecniche dei nostri servizi pubblici che erano già carenti ed ora, anche a fronte di una partecipazione ridotta ai concorsi di figure quali geometri, architetti, ingegneri, devono sostenere esigenze sempre crescenti nelle attività ordinarie. D’altronde le figure tecniche sono diventate merce rarissima e preziosa, a fronte dell’enorme carico di lavoro apportato dal PNRR, una valanga di adempimenti da espletare in tempi ridottissimi.
Un paradosso tanto evidente che è stato notato anche dall’ex ministro Brunetta, precursore e corresponsabile del disastro stesso in cui oggi si trova la PA. Responsabile del massacro morale e numerico dei suoi dipendenti. Chissà come mai oggi esiste una profonda discrasia tra i sondaggi, che narrano di giovani desiderosi del posto fisso nella pubblica amministrazione, e la realtà dei concorsi, ove si presentano poche persone che poi, una volta selezionate, fuggono a gambe levate verso altri ruoli o addirittura nel settore privato.
Le riflessioni più in voga imputano il fenomeno alla classica retorica dei dipendenti fannulloni delle PA, per i quali, ca va sans dire, “la pacchia è finita”. Ma qui ci sono in gioco gli obiettivi — e i miliardi di euro — del PNRR, e non dovrebbe esserci spazio per questo genere di semplificazioni. Quando si riuscirà per davvero ad aprire una riflessione equilibrata in materia di lavoro pubblico? Servono sia conoscenza che competenza per realizzare i programmi, i progetti, i bandi, le rendicontazioni, previste dal PNRR. Purtroppo vi è ancora un forte condizionamento dovuto alla combinazione tra sicurezza del posto di lavoro e una retribuzione troppo bassa e insensibile alle effettive capacità esperite durante l’attività lavorativa, tanto che spesso si incontra una profonda divergenza tra il ruolo previsto al livello organizzativo e quello effettivamente condotto. Un sistema insensibile ai tanti talenti esistenti nella PA, funzionari e assistenti che hanno acquisito capacità ed esperienza sul campo, formandosi e reinventandosi a coprire mansioni e attività dei colleghi in uscita verso il pensionamento e dei posti vacanti e delle competenze mai sostituite o reintegrate a causa degli obblighi di rispetto di tetti agli organici e ai tetti di spesa. Di loro, nulla si dice e nulla si propone. Lavoratrici e lavoratori dati per scontato che restano nell’ombra a far girare la sala macchine della burocrazia.
Da anni queste persone vivono in continua emergenza. L’emergenza ha travalicato e investe il quotidiano, la gestione ordinaria. Ecco perché queste figure professionali mai valorizzate e mantenute in condizioni mortificanti, anche dopo anni di servizio, anche a pochi anni dalla pensione, alla prima occasione scelgono di lasciare: è la fuga dai sovraccarichi di lavoro e di responsabilità, non dal lavoro e dalle responsabilità, ma dal loro eccesso (e dal mancato riconoscimento). I giovani che arrivano, che hanno la fortuna di entrare nella PA, oggi guardano allo stato delle cose e capiscono subito, comprendono il meccanismo mortificante che riduce alla mera sopravvivenza nell’emergenza. È forse in quel momento che pensano alla possibilità di lavorare meno e meglio, con meno vincoli e frustrazioni e con paghe decenti, ma non nella PA. Altrove.