di Linda Bardho
I primi risultati della riforma del lavoro introdotta dal Real Decreto-ley 32/2021 fanno sperare in un passo avanti verso il superamento della radicata precarietà lavorativa della Spagna.
A pochi mesi dall’approvazione del decreto, si sono verificati infatti ottimi risultati in termini di crescita delle assunzioni con contratto a tempo indeterminato, che sono passate dall’essere il 10% del totale (dicembre 2021) al 48% in aprile.
Questi sono indubbiamente dati positivi che però vanno valutati attentamente, senza lasciarsi andare ad eccessivi entusiasmi, come afferma anche Francesco Seghezzi, Presidente Fondazione ADAPT; Seghezzi ha osservato come quasi la metà dei nuovi contratti a tempo indeterminato siano filo-discontinui, cioè stagionali.
Ad ogni modo, un successo indiscutibile della riforma spagnola risiede sicuramente nel freno posto ai contratti a tempo determinato più brevi, i cosiddetti mini-job (tipologia che in Italia è molto diffusa), che si sono ridotti drasticamente.
La legge, discussa per ben 9 mesi con le parti sociali, conferma il contratto a tempo indeterminato come regola, e permette la possibilità di apporre un termine al rapporto di lavoro solo in due casi: per esigenze produttive e per la sostituzione di altri lavoratori; Il termine non può superare la durata di sei mesi in caso di situazioni imprevedibili (elevata ad un anno qualora previsto dalla contrattazione collettiva) mentre in caso di picchi prevedibili e limitati della produzione non può eccedere i 90 giorni.
Per garantire il rispetto di tali limiti si è introdotto un obbligo di trasformazione del contratto a tempo indeterminato qualora il lavoratore sia stato alle dipendenze della stessa azienda per più di 18 mesi con contratto a termine.
Al contempo, vengono estinti i contrato para obra o servicio determinado.
Questo quadro normativo ci porta inevitabilmente ad un confronto con la riforma operata dal nostro Decreto Dignità, che consente la libera stipulazione di un contratto a termine per un massimo di 12 mesi, elevata a 24 (per un massimo di 4 proroghe) in presenza di specifiche condizioni (per esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività; per sostituzione di lavoratori assenti; esigenze connesse a incrementi temporanei, non programmabili dell’attività produttiva; fino al 30 settembre 2022 anche per esigenze individuate dai contratti collettivi).
Analizzando i risultati del Decreto Dignità, ad un anno dall’approvazione, fonti INPS e ISTAT hanno rilevato un segnale positivo nel nostro mercato del lavoro, ma sicuramente non sufficiente per parlare di un cambiamento significativo dello stesso.
I dati, nell’ambito di un livello di occupazione stabile, hanno registrato un aumento dei contratti a tempo indeterminato, dovuto anche all’effetto delle 655 mila trasformazioni di contratti a termine. Emerge chiaramente l’effetto preposto dal decreto, ossia il portare i datori di lavoro ad accelerare le trasformazioni dei rapporti a termine in contratti stabili.
Durante la pandemia, con la parziale sospensione dei vincoli introdotti dal Decreto Dignità, si è verificata un’esplosione dei contratti a tempo determinato. Secondo i dati dell’Osservatorio sul Precariato dell’INPS, nel corso del 2021 il saldo tra le nuove assunzioni e le cessazioni è stato di 636.000 unità, delle quali solo 178.000 a tempo indeterminato a fronte di una variazione positiva di ben 275.000 unità per i rapporti a tempo determinato. Questo dimostra che il Decreto Dignità, con tutti i suoi limiti, ha sicuramente costituito un filtro all’utilizzo indiscriminato del contratto a tempo determinato.
Se vogliamo operare una comparazione, le due riforme hanno quindi un approccio diverso al problema della precarietà: quella spagnola limita i contratti più brevi mentre quella italiana si concentra sui contratti più lunghi; questo comporta rispettivamente una diminuzione dei mini-jobs in Spagna e un aumento delle trasformazioni dei contratti a tempo indeterminato in Italia.
Guardando ai risultati ottenuti, possiamo nutrire dubbi sulla stabilità di quei lavoratori stagionali che la Spagna conta tra i tempi indeterminati, i cosiddetti fijo-discontinuo, la cui discontinuità sembra configurare più un rapporto eternamente precario.
Un ulteriore interrogativo si pone di fronte ad un altro dato relativo al primo trimestre spagnolo; si tratta della diminuzione degli impieghi a tempo pieno e del contestuale aumento dei contratti part time del 42%. Nel complesso si possono quindi nutrire perplessità sugli effetti della riforma spagnola e sarà solo il tempo a svelarci se questo cambio di rotta nel mercato del lavoro porterà all’auspicato superamento della “vera” precarietà.
Questi elementi suggeriscono che non necessariamente copiare in blocco la normativa di altri stati comporta dei benefici: i dati proclamati a gran voce dalla politica e rilanciati dalla stampa, se guardati attentamente, mostrano come molti dei nuovi contratti “stabili” riguardino lavoratori impegnati part ‑time oppure stagionalmente. Sono tratti questi che difficilmente rispecchiano la stabilità perseguita dai lavoratori, quella che permette una vita dignitosa.
Uno spunto interessante da adottare della riforma spagnola è invece la riduzione a sei mesi del termine massimo consentito per un contratto a tempo determinato, un tempo più che sufficiente per consentire all’imprenditore di affrontare un picco prevedibile o incrementi non programmabili della produzione, considerato che per quei settori con esigenze stagionali, esistono i relativi contratti.
In Italia, infatti, la riduzione della durata massima dei contratti a termine da 36 a 24 mesi non ha prodotto un significativo aumento nelle assunzioni a tempo indeterminato poiché ha lasciato ancora tanta libertà ai datori di lavoro nel ricorso allo strumento.