di Giulia Lorenzoni, Scuola Possibile
Succede, alle volte, nuotando in mare aperto, di incontrare correnti fredde che non si sa bene da dove arrivino, la cui direzione e durata sono imprevedibili. Succede, alle volte, lavorando nel mondo della scuola, di incorrere nella stessa esperienza, quando ondate di nuovo pensiero iniziano a farsi largo, dapprima insinuandosi e poi irrompendo fragorose. Chi lavora nella scuola, nuota fragile e disorientato tra le correnti. La linearità delle richieste fatte nei secoli a questa istituzione si è persa poco a poco, complice la transizione della società verso una crescente articolazione e complessità. Alla scuola, oggi, vengono richiesti sforzi di ogni tipo e in ogni direzione, imprese che entrano in contraddizione fra loro. Ci si accanisce contro di essa se non riesce da sola nell’intento, come se non esistesse la politica e come se la società non fosse involucro naturale della scuola stessa. È colpa della scuola, è colpa dei dirigenti scolastici, è colpa dei docenti. La deresponsabilizzazione è diventata ormai la pratica più veloce per risolvere i conflitti e, in questo tempo del “tutto e subito”, si fatica a comprendere come non sia stata inventata un’app per eliminare il problema.
In un sistema capitalistico cronofago, alla scuola viene chiesto di ritagliare per gli studenti quel tempo libero dal fare che sta nell’etimo stesso della parola skolè. Oggi ogni spazio viene occupato da attività e pratiche varie della rappresentazione, perfezione e promozione del sé. Il messaggio, non certo sottinteso, è che, “se davvero vuoi”, allora riuscirai. È sconsiderato pensare che la scuola possa arginare l’onnipresenza del discorso su performance e successo, o che riesca a trasmettere un’idea diversa di tempo libero- come ozio, come spazio da riempire attraverso la creatività. Non appena ci si accorge degli effetti nefasti della competitività sulla psiche degli studenti, scatta l’allarme e si chiede alla scuola di promuovere uguaglianza, mentre “fuori” la società è sempre ubriaca di retorica sulla meritocrazia. Negli anni la scuola si è gradualmente trasformata in un’azienda peculiare, dove gli studenti sono diventati “utenti”, “fruitori” e i docenti “erogatori di un servizio” che, come tale, deve essere valutato.
Oggi, dopo l’esperienza della DAD si invoca la “centralità della relazione” come se il profluvio di critiche mosse alla classe docente non avesse consumato il bagaglio di autorevolezza degli insegnanti, indispensabile per creare quel senso di credibilità che porta all’ascolto e all’apprendimento. Le relazioni non si costruiscono per decisione unidirezionale e, per stabilirle, occorre innanzitutto fiducia nella capacità dell’altro di prestare attenzione. E di attenzione hanno bisogno anche i docenti naufraghi, per capire e orientarsi, per dominare le correnti. Alla scuola si chiede di promuovere uguaglianza in una società tragicamente divisa e inveteratamente classista; si chiede inclusione ma si limita la libertà di parlare di ogni tipo di diversità. Alla scuola si chiede di insegnare l’empatia, come se sentire con l’altro non fosse in primo luogo un’attitudine che si “assorbe” fin dalla più tenera età; un’esperienza che viene senz’altro amplificata dalla lettura, grazie alle storie che ci fanno vivere emozioni e scenari inusuali in modalità vicaria, “in vece” dei loro protagonisti.
Tuttavia, nell’assegnare questo compito di counseling alla scuola, si dimentica che intere generazioni di giovani rimangono inascoltati in primo luogo all’interno delle loro stesse famiglie- perché non c’è tempo, non c’è energia: i genitori sono fagocitati da un sistema produttivo che ingoia i minuti e confonde i bisogni. Ai giovani, abbandonati alle loro emozioni entropiche, si chiede implicitamente di autogestirsi, oppure, in alternativa, si chiede alla scuola di insegnare loro soft skills, dimenticando, o semplicemente ignorando, che le relazioni hanno bisogno di tempo, presenza e costanza, insomma di cura; che il senso di identità non è mai un dato fisso è immodificabile ma si costruisce in una vita intera, affrontando ogni giorno situazioni complesse. La stessa attenzione e comprensione che i genitori chiedono alla scuola per i propri figli, andrebbe richiesta anche per chi, come i docenti, cerca di dominare questo equilibrio mobile e nuota spesso in direzione contraria alle correnti.
È illusorio pretendere la perfezione del singolo ingranaggio quando è l’intero meccanismo a essere difettoso. La scuola non è e non può essere Atlante, non può portare i pesi del mondo, sanare i conflitti o ricomporre le fratture. Non può, in sostanza, essere scambiata per mito, o favola, immobile e intatta rispetto al contesto in cui esiste. La scuola vive, evolve, ed è fatta della stessa materia della società, che non è certo quella dei sogni.
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“LA SCUOLA SALVA IL MONDO. PROPOSTA PER UNA SCUOLA POSSIBILE”.