Continua la nostra rassegna #Primadeldiluvio, quello vero. Per costruire un programma di governo che regga dal punto di vista della sostenibilità ambientale e dello sviluppo compatibile con le risorse naturali. I contributi precedenti, a opera di esperti e operatori di diversi settori, li trovate cliccando qui.
La Bioeconomia è la teoria che, accertato il limite biofisico alla crescita sulla Terra, mira ad elaborare criticamente l’opposizione fra crescita economica e sviluppo sostenibile. All’interno di questa pensiero entra la Chimica Verde che rappresenta un nuovo approccio, più sostenibile, a tutti i processi industriali che coinvolgono la chimica.
Noi dell’Associazione Chimica Verde Bionet, interpretiamo il concetto con un’accezione ancora più ristretta: per noi rappresenta un rivoluzionario cambiamento epocale, ovvero la sostituzione del carbonio di origine fossile, pertrolchimica, con carbonio rinnovabile di origine vegetale.
Si parla molto di decarbonizzazione dell’economia e la chimica verde rappresenta una pietra miliare della riduzione delle emissioni climalteranti, in quanto riunisce intorno a se l’insieme delle tecnologie che — partendo sia da materie prime vegetali, sia da colture coltivate che da residui e scarti — possono e potranno produrre bioplastiche, prodotti per bioedilizia, biocosmesi, molecole attive per mezzi tecnici per l’agricoltura così come per alimentazione umana e nutraceutica, prodotti energetici, i cosiddetti “buiding blocks” (ovvero intermedi di chimica di base con cui costruire composti complessi). Praticamente quasi tutto quello che attualmente ha una componente di origine fossile può essere prodotto in modo sostenibile e rinnovabile.
Questi bioprodotti vengono realizzati nell’industria del futuro che ha il nome di “Bioraffineria”. Un modello industriale nuovo che permette di produrre bioprodotti sostenibili diversi, oltre che di ridurre al contempo l’uso delle materie prime, spesso importate da paesi lontani, e quello dei rifiuti.
Si tratta di più impianti in un unico sito, dove le materie prime in ingresso, di solito provenienti dal territorio circostante, entrano in un processo definito “a cascata”, nel quale il residuo di un impianto rappresenta la materia prima in ingresso dell’impianto successivo, fin quando dall’ultimo scarto non si riesce più ad estrarre niente, sia per costi troppo elevati, sia perché ormai è stato veramente utilizzato al meglio. Normalmente l’ultimo scarto viene utilizzato per produrre energia. Il tutto con criteri di sostenibilità che ne assicurino il risultato migliore in termini di minori emissioni e minore impatto sull’ambiente e sulla salute delle persone.
Non è fantascienza, l’Italia con le sue PMI e gli importanti centri di ricerca pubblica e privata, rappresenta uno dei leader del settore a livello mondiale. Si producono già bioplastiche partendo dal cardo in Sardegna; bioetanolo partendo dalla paglia e da altra cellulosa in Piemonte; si producono biolubrificanti e biodetergenti partendo dai residui della filiera olearia in Puglia; si producono manufatti di bioplastiche partendo dai residui della filiera della barbabietola da zucchero in Emilia Romagna; molecole attive e corroboranti che sostituiscono biofumiganti estremamente tossici ma necessarie nella difesa fitosanitaria in Toscana, partendo da alcune piante selezionate dalla ricerca del CREA; pannolini biodegradabili e compostabili, ovvero da poter essere messi nel contenitore dell’umido, nella raccolta differenziata. Possiamo presentare mille altri esempi, come i gioielli realizzati con scarti dell’industria ittica, la “Pellemela” realizzata con gli scarti delle mele con la quale già si fabbricano scarpe, vestiti e divani, o vaschette di “Polipla”, praticamente identico al polistirene ma prodotto da amido.
Quello che è importante sapere è che questi esempi riportati non rappresentano produzioni di nicchia per pochi innamorati dell’ecosostenibilità: sono prodotti in milioni di pezzi e venduti in tutto il mondo. Spesso non sappiamo di avere in mano un bioprodotto ma, già sono nell’uso quotidiano, la carta dove si mette la baguette calda nei supermercati ha una finestra trasparente: quella è una bioplastica. Molta plastica utilizzata nel packaging di prodotti pronti (verdure lavata ad esempio) sono in bioplastica, che spesso ha anche il “dono” di allungare la vita utile del prodotto (la data di scadenza). Ormai la Chimica verde ci accompagna nella vita di tutti i giorni e inoltre aiuta l’ambiente e le imprese italiane!
Servono molte azioni politiche per consolidare questa leadership italiana nel mondo. Serve una fiscalità ambientale che riconosca le esternalità positive determinate dai bioprodotti, ovvero il riconoscimento che un bioprodotto diminuisce i costi ambientali e sociali dell’analogo prodotto fossile sostituito. Servono strumenti amministrativi adeguati che permettano rapidi iter amministrativi per la realizzazione delle bioraffinerie integrate. Serve una normativa aggiornata alle migliori pratiche che consenta la gestione corretta del fine vita dei bioprodotti: troppe volte ci troviamo con materiali biodegradabili e/o compostabili che non possiamo mettere nella raccolta differenziata dell’umido (dove naturalmente dovrebbero andare) perché impedito da normative obsolete o approvate dal nostro Parlamento ma ferme a Bruxelles per verifiche. Servono strumenti intelligenti di informazione e formazione dei cittadini che non conoscono queste realtà e quindi non possono rendersi conto delle meravigliose possibilità che hanno a disposizione e non capiscono perché acquistare un bioprodotto che ha ancora, quasi sempre, costi ovviamente più alti.
Ma soprattutto serve una classe politica che si renda conto di questa realtà e costruisca un piano strategico concreto e stabile per tale settore. Qualcosa sta già succedendo ma sempre senza una cabina di regia tra ministeri, troppo spesso concorrenti tra di loro in una materia che abbraccia molte competenze e molti saperi.
Per questo chiediamo al Governo che se ne occupi seriamente. O che almeno non affossi questo settore come già successo con le rinnovabili, dato che al momento non è stato stanziato un euro pubblico per la Chimica Verde e siamo comunque in ottima salute.
Sofia Mannelli