[vc_row][vc_column][vc_column_text]Nel mezzo di una situazione di emergenza (reale, percepita, amplificata che sia), non è forse superfluo chiederci cosa intendiamo con una formula così semplice come “safety first”, “la sicurezza prima di tutto”.
La “sicurezza” stessa è un termine scivoloso, reso tale dall’uso strumentale che ne ha fatto per anni la destra, ma anche dai tentativi maldestri o in malafede di chi a sinistra ha cercato di riappropriarsene (termine tecnico, chi va alle assemblee della sinistra che sta sempre ripartendo lo sa). L’esempio più lampante e relativamente più recente sono i “Decreti sicurezza” di Salvini, indisturbati se non a parole dal nuovo governo col vecchio premier, che verranno (forse) leggermente emendati e che poggiano sull’idea di gestione di immigrazione e ordine pubblico dei decreti Minniti e Minniti-Orlando.
Ma “sicurezza” ha anche un risvolto economico, il “posto sicuro”, lo “stipendio sicuro”, la sicurezza di arrivare a fine mese. Una questione che, sempre a parole, pare essere la priorità di tutti, ma poi scivola via tra misure tampone, bonus, ammortizzatori che scordano sempre qualcuno. Casualmente, sempre quelli che ne avrebbero un po’ più bisogno. Quelli che hanno più difficoltà. Quelli che, quando c’è una crisi di qualche tipo, succede a tutti, ma a loro di più.
Il caso del coronavirus ha esposto questo problema drammaticamente, ma temo non ancora abbastanza. La salute è una di quelle situazioni “safety first”, e ci mancherebbe. L’economia ne soffre, chi lavora ci rimette, si cerca di trovare delle compensazioni. Le chiedono anche quelli che gli altri giorni dell’anno sono per l’autonomia, l’obsolescenza del welfare state, la legge della giungla e altre amenità buone solo finché ad aver bisogno di sostegno sono gli altri (si scrive sostegno, ma si legge porto sicuro, soccorso in mare, prestazione sanitaria, libera circolazione tra gli stati…).
Questa è una situazione di emergenza, e ci stiamo comportando di conseguenza, nel bene e nel male. Ma ci sono anche situazioni endemiche, in cui i virus non c’entrano. Lavoratori e lavoratrici per cui il tempo è denaro, letteralmente, e una settimana o due, su quattro che ci sono in un mese, possono voler dire la differenza tra equilibrio precario e rosso totale. Ci sono settori, come la cultura e il turismo, per esempio, che non possono essere fermati e riavviati come se ci fosse un interruttore on/off: perché si basano su programmazioni fragili e concomitanze che, una volta saltate, azzerano la resa; perché dipendono fortemente dalla calendarizzazione (le vacanze di Carnevale, una volta passate, non si recuperano più); perché sono influenzate dal livello di fiducia che si ha nel paese e dalla possibilità di muoversi liberamente e facilmente.
Perché l’esempio di cultura e turismo?
Primo, perché ci dicono che sono strategici. La cultura, “il petrolio dell’Italia”. Il turismo, “l’orgoglio italiano”. Seguono, in genere, una serie di dati sulla quantità di siti Unesco del tutto sballati. Per non parlare del “grande lavoro culturale” che tutti invocano come necessario per fermare la marea nera di razzismo, fascismo, anti scientificità con cui si misura tutti i giorni un paese in cui il 15% della popolazione non crede che la Shoah sia mai esistita.
Secondo, perché se nessuno vuole venire in Italia, né può andarsene in giro sul territorio italiano, e nemmeno entrare in un museo o in una sala affollata (che sia di teatro, cinema, conferenza), di quello che succede a turismo e beni culturali dobbiamo parlare. Se le scuole sono chiuse, se i viaggi di istruzione sono fermi, se prendere un treno diventa una scommessa e gli eventi vengono annullati in ottemperanza alle ordinanze e ai decreti ministeriali, il bilancio è impietoso (Federturismo, scrive il Sole24Ore, parla di un danno di 5 miliardi di euro; Federvivo segnala 7.400 spettacoli teatrali saltati e 10 milioni di euro persi) e andrà anche oltre al periodo di chiusura effettiva. Le scuole non sono aziende, molte non recupereranno le attività che non sono riuscite a svolgere, o lo faranno con grande difficoltà. I festival, le rassegne non si possono facilmente spostare e replicare in un secondo momento. Le spese già sostenute, il lavoro preparatorio svolto in previsione dei futuri incassi spesso non rientrano più.
Terzo, perché sono settori in cui abbondano, tristemente, le forme di lavoro che maggiormente lasciano vulnerabili lavoratori e lavoratrici, e che difficilmente consentiranno l’accesso alle forme di compensazione pensate per altri tipi di contratti. Chi lavora in proprio, chi viene pagato a chiamata e solo per le attività svolte effettivamente, chi non può contare su ferie, mutua, buste paga. Chi ha una retribuzione che a pieno regime consente di stare sulla linea di galleggiamento, ma che di fronte a una riduzione forzata delle ore di lavoro sprofonda inesorabilmente. I freelance, gli autonomi, le partite IVA. I precari di ogni genere e tutte quelle forme di lavoro praticamente assimilabili al cottimo.
Quindi, “la sicurezza prima di tutto”, ovviamente. Soprattutto quando le misure mirano a proteggere le fasce di popolazione più vulnerabili. Ricordando che però la vulnerabilità, come la sicurezza, contiene moltitudini. A partire dalla giustizia sociale. Su cui dovremmo investire almeno altrettante energie di quelle che stiamo concentrando negli sforzi di questi giorni. [/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]