«Una notte sono entrati nella nostra casa e hanno cercato di rapirmi. Mio marito ha preso le mie difese, mettendosi di mezzo. Pochi secondi dopo giaceva a terra, con un proiettile in corpo. Quando la polizia è intervenuta ha scoperto che ero senza documenti: mi hanno arrestata e detenuta per diverse settimane senza alcun motivo, in condizioni terribili».
Sabato mattina ho ascoltato questa storia, la storia di Beauty e del piccolo Andrew, nato in Italia quattro mesi fa. Il cadavere col proiettile in corpo era quello di suo papà, che dall’inferno libico non è riuscito a fuggire.
La fuga di Beauty, che è proseguita con la traversata del Mediterraneo, non comincia dalla Libia, ma dalla Nigeria. La stessa Nigeria di Hope, il bambino salvato da una volontaria dopo essere stato abbandonato dalla sua famiglia perché ritenuto uno stregone. La stessa Nigeria verso cui l’Italia vorrebbe eseguire rimpatri di massa, a seguito di una miratissima “caccia al nigeriano”.
«Mio marito ed io appartenevamo a una famiglia facoltosa e siamo scappati nel momento in cui, a seguito della morte del leader spirituale — di una religione basata su idoli e riti vudù — della comunità, le nostre famiglie volevano che lui ne prendesse il posto, rinunciando a me e ai nostri due figli». Sottrarsi a quella che è di fatto ritenuta una vocazione sarebbe stato impossibile, e per questi ragioni decisero di scappare, con l’obiettivo di giungere in Europa: una strada che passa necessariamente dalle violenze della Libia e dalle mani dei trafficanti di uomini. Non ci sono alternative.
Mentre ascoltavo la storia di Beauty e Andrew, i vertici europei discutevano a Malta di come bloccare in Libia i migranti diretti verso l’Europa provenienti da tutta l’Africa, anche sulla base di un memorandum bilaterale tra il governo Gentiloni e il governo libico di unità nazionale, guidato da al Serraj. Un governo, quello di al Serraj, che esercita il controllo solamente su una parte del territorio libico, mentre larghissime zone sono contese da diverse milizie, e al quale si contrappone un altro governo, con sede a Tobruk.
Eppure le cose non sono andate sempre così e c’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui il governo italiano decise che le persone non potevano né rimanere in Libia e neppure morire in mezzo al Mediterraneo, ma che fosse necessario salvarle (pensate che idea rivoluzionaria, eh) e metterle al sicuro. Quel governo era il governo Letta che, nell’ottobre del 2013, inaugurò la missione Mare Nostrum, avente un preciso e molto ampio mandato di ricerca e soccorso in mare. Un anno dopo — e dopo numerose dichiarazioni contrastanti -, il governo Renzi non rinnovava questa missione, che veniva formalmente sostituita da una missione europea (Triton) e da successivi aggiornamenti, tra grossi passi indietro e piccoli passi avanti.
Mare Nostrum ha senza dubbio segnato una svolta rispetto alle precedenti politiche, basate su respingimenti collettivi (sanzionati dalla corte di Strasburgo) e accordi con la Libia (inaugurati dal governo Berlusconi nel 2008 e rinnovati nel 2012) per evitare le partenze. Accordi, ai tempi, criticati da più voci, dato che i metodi utilizzati dal governo di Gheddafi per bloccare i migranti si fondavano sull’uso e l’abuso della violenza, su carcerazioni arbitrarie e su vere e proprie persecuzioni. Le critiche riguardavano anche il fatto che la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra che disciplina il riconoscimento dell’asilo e lo status dei rifugiati a livello internazionale, non offrendo perciò alcun tipo di garanzia giuridica.
Purtroppo l’approccio segnato da Mare Nostrum è un lontano ricordo, mentre tutte le criticità rilevate allora sono ancora evidenti nel memorandum sottoscritto da Gentiloni e al Serraj, in larghissima parte dedicato al controllo delle frontiere libiche, e che ribadisce la «ferma determinazione di cooperare per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare, attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico». Avete letto bene: Beauty sarebbe stata una “clandestina” e non una persona in fuga. Beauty sarebbe stata detenuta in campi di accoglienza sotto l’esclusivo controllo del governo libico. E’ esattamente quanto già successo, e non si tratta d’altro che della istituzionalizzazione e legalizzazione di quanto già avviene in Libia, a danno dei migranti. E se non credete alla storia di Beauty può essere utile ricordare cosa ha scritto pochi giorni fa dall’ambasciata tedesca in Niger, e cioè che in Libia si verificano quotidianamente «esecuzioni di innumerevoli migranti, torture, stupri, episodi di corruzione e di abbandono nel deserto».
Sarebbero “clandestini” anche i cittadini in fuga da Eritrea e Somalia, che in Italia vedono riconosciuta la propria domanda di asilo nel 98% dei casi in prima istanza. Chi può garantire, in assenza di un quadro giuridico, che a queste persone venga garantito un trattamento conforme al diritto internazionale o che — perlomeno — non siano vittime di abusi e violenze?
Mentre Trump costruisce muri e va avanti imperterrito col #MuslimBan, i governi europei da un lato si indignano, mentre dall’altro lato, quello bagnato dal Mediterraneo, costruiscono un muro politico che allontana la questione dallo sguardo ma non pulisce le coscienze, neppure grazie al generico richiamo contenuto nella Dichiarazione di Malta alla presenza in Libia di UNHCR e OIM. Un accordo che in alcun modo contribuirà né a risolvere le questioni che stanno alle radici delle migrazioni né a offrire un rifugio sicuro a chi scappa da guerre e persecuzioni, ma che, anzi, rischia di condannare a ulteriori sofferenze le persone in fuga. Un accordo che, in definitiva, tradisce i valori sui quali dovrebbe fondarsi l’intera costruzione europea.