Abbiamo appena avuto l’ennesima riprova di come il Ministro Poletti non sappia resistere alla tentazione. Ogni volta che gli capita tra le mani un dato fornito dai suoi uffici che non presenti tristemente il solito segno meno non esita un istante e si lancia in dichiarazioni propagandistiche per vantare la bontà delle leggi prodotte dal governo Renzi in materia di lavoro, Jobs Act in testa.
Ci ha già pensato Davide Serafin in questo stesso sito a dimostrare con estrema chiarezza come sarebbe stato facile per il Ministro evitare l’ultimo autogol, anche senza aspettare i dati ufficiali dell’ISTAT, se solo avesse esaminato con un minimo di rigore i dati forniti dal suo stesso Ministero. Si sarebbe reso conto che il saldo netto di 92.300 assunzioni registrate a marzo non erano affatto un segnale di cui vantarsi.
Purtroppo la diffusione dei dati ufficiali dell’ISTAT ha offerto un quadro fin peggiore di quello che già traspariva dalle Comunicazioni Obbligatorie trasmesse dalle imprese al sistema informatico del Ministero. Siamo ritornati sotto quota 22,2 milioni di occupati, al livello di dicembre 2013.
Il tasso di occupazione femminile ha proseguito il suo andamento discendente ripiegando sui livelli di aprile 2014, mentre ascoltiamo Papa Francesco prendere posizione contro la discriminazione di genere sul lavoro, che riguarda i salari e prima ancora l’occupazione.
Il tasso di disoccupazione ha nuovamente toccato il 13%, ossia il livello record di ottobre-novembre scorso, quando il premier zittiva il Parlamento imponendo l’approvazione del Jobs Act (una legge delega) con voto di fiducia, violando principi Costituzionali elementari. La giustificazione per tutte queste forzature era proprio la necessità e l’urgenza di arrestare la crescita della disoccupazione che aveva varcato per la prima volta da quando esiste l’Indagine sulle Forze di Lavoro la soglia del 13%. Ecco, ci siamo di nuovo, il Jobs Act ha lasciato il segno, ma in tutto un altro senso.
Al suo arrivo, con i decreti attuativi per abolire l’articolo 18 e istituire il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, era stato salutato con toni trionfali dal premier Renzi: “la svolta che i giovani precari aspettavano da una vita”, a sentir lui.
Anche questa svolta è arrivata. Un buon numero di giovani che lavoravano con un contratto a tempo determinato sono stati assunti (in imprese al di sotto dei 15 addetti dove non c’era prima e non c’è adesso la copertura dell’articolo 18) grazie al bonus 8.000 euro della legge di stabilità, a favore delle imprese. Per altri si attendeva l’entrata in vigore del nuovo regime, a marzo. E si sarebbero visti gli effetti sull’occupazione, dicevano. Di qui l’ansia del Ministro Poletti e il suo scivolone sulle cifre del Ministero.
Ed ecco che sono usciti i dati, impietosi. Mentre i nuovi assunti con il contratto “a tutele sparite” stanno scoprendo in banca che per avere un mutuo continua ad essere necessaria la busta paga dei genitori (o la garanzia ipotecaria di qualcuno che una casa già la possiede), la disoccupazione giovanile torna a varcare la soglia del 43%, proprio come a metà dell’anno scorso.
Data la drammaticità della situazione non si dovrebbe infierire. Ma d’altra parte dovrà pure convincersi il nostro premier che alla lunga la sua comunicazione arrembante e superficiale gli sta alienando gran parte delle simpatie che lo avevano accompagnato al momento della “presa del potere”. Chiudiamo allora con una notazione sintetica sull’affermazione che ha avuto l’ardire di fare nel salotto della Gruber lo scorso 24 aprile (il video è in rete, la citazione è a 28:26 ma tutto il minuto 28′ è dedicato al tema di questa nota): “l’ISTAT fa sondaggi (!), il dato vero è quello dei 92mila nuovi posti di lavoro” (quelli annunciati dal Ministro Poletti).
Ora, è grave che un Ministro del Lavoro dia interpretazioni indebite su dati che dati non sono. Ma il Presidente del Consiglio, alle cui dirette dipendenze lavora l’ISTAT, dovrebbe conoscere la differenza tra un dato statistico rilevato con una metodologia internazionalmente condivisa (su un campione statistico stratificato, rappresentativo della popolazione italiana), come è quello diffuso dall’ISTAT, e la raccolta per via informatica (senza alcun criterio per garantirne una qualche significatività) di comunicazioni amministrative.
Se si seguisse il criterio che pensa Renzi, ad esempio, per misurare la ricchezza degli italiani, si ricostruirebbe il PIL in base alle dichiarazioni IRPEF. Invece dovrebbe sapere (perché dovrebbe far parte del bagaglio di nozioni elementari di chi ricopre la sua posizione) che è tutto il contrario e che si misura piuttosto l’evasione IRPEF attraverso il calcolo statistico del PIL. O dobbiamo aspettarci anche da lui, prima o poi, qualche battuta sulla fine della crisi, del genere di quella famosa di Berlusconi sui ristoranti pieni, mentre l’Italia sprofondava nella depressione in cui ci troviamo tuttora?