Lo scorso Gennaio presenziava alla conferenza “Italy Now: Investment, Opportunity, Impact”, tenutasi a New York e organizzata dall’ICE, l’Istituto per il Commercio con l’Estero. In quella sede, il Ministro per lo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, narrava di un paese in ripresa grazie alle riforme del governo Renzi e spiegava, in un contesto di interesse commerciale verso le maggiori imprese italiane, come il nuovo corso renziano avesse creato le condizioni di opportunità per investire nelle nostre industrie.
Una missione, quella di Calenda, che prosegue dal suo impegno in Confindustria dai tempi della presidenza Montezemolo, quando rivestiva il ruolo di Direttore dell’Ala Strategica e Affari Internazionali, periodo in cui operò per l’internazionalizzazione delle nostre imprese. Non dovrebbe destare sorprese (“Calenda choc”, titola Il Manifesto), quindi, la presa di posizione a mezzo stampa assunta dal Ministro, ieri, circa le politiche economiche del governo del quale fa parte.
“Io penso che investimenti e competitività sono i due pilastri attorno a cui costruire la manovra. Gli stimoli indifferenziati alla domanda non funzionano in un clima di incertezza generalizzata che è destinato a protrarsi. Occorre individuare con chiarezza pochi, precisi driver di crescita su cui concentrare le risorse, spiegando in modo trasparente ai cittadini che i frutti si vedranno nel tempo” — La Repubblica — Economia, 20/08/2016.
Lo choc non dovrebbe essere relativo al fatto che Calenda, poche righe più avanti, suggerisca più soldi alle imprese — mediante incentivi agli investimenti — in una sorta di piano “Industria 4.0”, bensì alla critica neanche troppo implicita alla politica del bonus finora condotta dal governo. Alla specifica domanda (“Sta criticando la politica di bonus?”), Calenda risponde in modo ecumenico, riconoscendo le forti ragioni di equità che le hanno motivate ma, al medesimo momento, sostenendo il suo punto di vista, che non è certo dissimile dal punto di vista dell’organizzazione datoriale dalla quale proviene: incentivare dal lato dell’offerta, migliorando in competitività. Solo così potremmo convincere Bruxelles a concedere altri margini di flessibilità sui conti.
Se la versione di Calenda resta troppo vaga e si concentra nei soliti incentivi di natura fiscale (sarebbe forse opportuno un riordino complessivo, evitando gli sprechi, ndr.), il punto politico è invece molto chiaro e dovrebbe stimolare l’interesse di giornalisti e commentatori, forse troppo distratti dal Trilaterale di Ventotene: la critica alla politica del governo è forse il preludio ad un cambio di rotta che passi dal trattare male e in maniera improvvisata le ragioni dell’equità, alla loro totale trascuratezza?
Abbiamo sprecato miliardi in bonus e incentivi alle assunzioni che non hanno prodotto gli effetti sperati (e, nel secondo caso, si sono tradotti in un mero sgravio alle imprese). Con le stesse somme, si sarebbero riparati i guasti in materia di equità sia sulla tassazione al lavoro dipendente che a quello autonomo. Ma tant’è, ora gli spazi di manovra sono strettissimi e le clausole di salvaguardia che i perfidi governi Monti e Letta “hanno disseminato” come “trappole nelle vecchie finanziarie”, stanno lì — indomite — ad aspettarci.