Gentile dottoressa Gabanelli,
siamo suoi lettori e followers (potremmo dire così, ai tempi dei social network) che le scrivono, con l’intento di offrire qualche spunto aggiuntivo al dibattito da lei avviato sulla questione dell’accoglienza dei migranti. Abbiamo apprezzato molto il suo contributo e, soprattutto, ammiriamo molto il coraggio di affrontare senza tentennamenti uno dei temi più spinosi dei nostri tempi, sul quale si reggono in equilibrio non solo governi nazionali ed europei, ma anche questioni profonde che riguardano la nostra identità e la nostra cultura, fondate sul rispetto dei diritti e sulla supremazia del diritto.
Una cultura che tanto più deve valere per le relazioni che costruiamo con paesi terzi: la strategia fondata sui «migration compact» proposta dall’Italia all’Europa, e da lei richiamata, ha sollevato in questo senso numerose perplessità, basandosi su uno scambio di fatto tra aiuti allo sviluppo e accordi con paesi — che è difficile definire sicuri — perché questi sigillino le proprie frontiere e accettino il rimpatrio di propri cittadini. Ne ha scritto, con la necessaria puntualità, il professor Maurizio Ambrosini, analizzando il «compact» con il Niger (Migranti: quel patto Ue-Niger che sa di xenofobia, lavoce.info), così come Francesca Spinelli riferendosi all’Afghanistan (L’Europa è un luogo sempre meno accogliente con i profughi afgani, Internazionale).
La nostra sincera preoccupazione è che, da una parte, l’Europa stia finanziando la costruzione di muri, fisici e politici, più che investimenti che possano generare benessere per i popoli più poveri e perseguitati del mondo, abdicando alla tutela di un diritto internazionalmente sancito, e cioè il diritto all’asilo. Dall’altra parte, come da lei ricordato, non si contano gli investimenti cinesi in infrastrutture ripagate in risorse minerarie. E se è vero, come è vero, che è all’interno delle organizzazioni sindacali che possono nascere movimenti di ribellione che potranno portare alla democratizzazione di alcuni paesi, è anche vero che ciò non giustifica in alcun modo lo sfruttamento e la depredazione di risorse naturali, condizioni dalle quali non si può che scappare, covando sentimenti di rabbia, alla ricerca di tempi e luoghi migliori.
Non dimentichiamo, inoltre, le nostre responsabilità. Tornano oggi di attualità le parole di Sandro Pertini: «L’Italia a mio avviso, deve essere nel mondo portatrice di pace: si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgente di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame». Perché se non c’è la pace e non c’è la volontà di risolvere i conflitti — spesso causati da potenze europee — allora nessuna risposta sarà mai all’altezza. Non è la pace, purtroppo, a decollare dalla Sardegna alla volta dell’Arabia Saudita, ma carichi di bombe.
Alla radice degli sbarchi c’è anche questo: la fuga da posti in cui non è garantita alcuna libertà civile e sociale, ed è un nostro dovere (morale e giuridico, non dimentichiamolo mai), di italiani e europei, accogliere queste persone in fuga. Questo arrivo, che eviterei di definire “tsunami” dato che nel 2015 i paesi dell’UE hanno ricevuto 1,3 milioni di richieste d’asilo, a fronte di 508 milioni di cittadini europei (0,25%), possiamo pensare di trasformarlo in opportunità: siamo perfettamente d’accordo. «Il piano — si legge nella sua analisi — deve prevedere la mappa dei luoghi in cui convogliare i flussi (stimabili in circa 200.000 persone l’anno), nei quali identificare chi ha diritto di restare e chi no, fare i corsi di lingua, di formazione al lavoro e alle regole della democrazia europea. Per una migliore razionalizzazione e controllo, sono preferibili ampi spazi, che abbiamo già: i resort sequestrati alla mafia, gli ex ospedali, l’enorme patrimonio delle caserme dismesse. […] È necessaria poi l’applicazione di regole rigide: obbligo di frequenza quotidiana dei corsi, e tempo massimo di permanenza nelle strutture di 6 mesi, trascorsi i quali i richiedenti asilo, provvisti di status e curricula devono essere trasferiti per quote nei diversi Paesi europei e sul nostro territorio. […] Costi: circa 2 miliardi di euro per la messa in abitabilità; circa 2,5 miliardi di euro all’anno, fra stipendi, manutenzione e mantenimento».
Per quanto possa essere un piano di semplice realizzazione crediamo che non sia la soluzione ottimale per cogliere, appunto, questa opportunità.
In primo luogo è sicuramente da incentivare il recupero del patrimonio pubblico dismesso, sia a questo fine sia per rilanciare politiche per la casa su base nazionale, ma la concentrazione di molti migranti in caserme e resort di grandi dimensioni causerebbe almeno due conseguenze di certo non positive: la possibile segregazione di comunità di migranti rispetto al tessuto sociale delle nostre comunità e, allo stesso tempo, un clima di ostilità nelle nostre comunità, come già si è verificato in numerosi casi, fino all’innalzamento di vere e proprie barricate.
In secondo luogo, siamo d’accordo che lo Stato debba farsi carico di questa responsabilità, ma tanto a livello centrale quanto a livello periferico: la compartecipazione dei comuni non può limitarsi a prendere atto della riconversione di una caserma, ma deve affiancare e accompagnare quotidianamente i processi di accoglienza.
In terzo luogo esiste già un sistema virtuoso di accoglienza, il Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR), che garantisce l’erogazione di corsi e di percorsi personali di inclusione sociale, l’accoglienza in piccole strutture (fino a singoli appartamenti) e la responsabilizzazione degli enti locali. Il tutto rendicontato fino all’ultimo centesimo, escludendo perciò gestioni al limite del criminale. Peccato che, al momento, i posti di accoglienza SPRAR siano 23.500, circa il 15% del totale, contro l’80% di posti “in emergenza”. Si tratta, tra l’altro, di un sistema che ha trovato terreno fertile in aree periferiche del paese, generando piccole economie locali che hanno permesso di evitare lo spopolamento, di riaprire asili, di creare posti di lavoro per educatori, mediatori culturali, operatori legali. I costi non sarebbero dissimili da quelli da lei citati.
Quel che possiamo portare in Europa come modello di accoglienza è esattamente questo: l’accoglienza diffusa, la corresponsabilizzazione degli enti locali, la gestione virtuosa del fenomeno. Su queste basi possiamo e dobbiamo chiedere che gli impegni già assunti a livello europeo sulla redistribuzione dei rifugiati siano attuati e resi sistematici in futuro con la riscrittura del regolamento di Dublino.
L’ultimo punto, ma non meno spinoso, riguarda i cosiddetti “migranti economici”. Non possiamo prima di tutto prescindere dal fatto che stiamo parlando di una categoria che meriterebbe di essere oggetto di una riflessione, che è in realtà antichissima. Infatti non rientra nella categoria dei rifugiati una persona che, a causa dell’avanzata della desertificazione o di alluvioni sempre più frequenti, non possa più coltivare la propria terra: di conseguenza viene definita “migrante economico”. Eppure, già nel 1936, John Steinbeck definiva “refugees” le persone in fuga dalle tempeste di sabbia che avevano colpito gli stati centrali. Il tema, ovviamente, non si riduce alla ridefinizione delle categorie, e infatti ha bisogno di essere affrontato anche attraverso la politica migratoria, che il nostro paese ha di fatto rifiutato di attuare grazie a una legge, la “Bossi-Fini”, che impedisce nei fatti l’ingresso per lavoro in Italia, riversando anche coloro che sono partiti a quest’unico fine nel flusso dei richiedenti asilo.
Per concludere, e ringraziando Milena Gabanelli per aver rinnovato questo dibattito, sta a noi decidere da quale parte della storia schierarci, se con coloro che costruiscono barriere oppure con coloro che cercano di abbatterli, con gli strumenti di un irriducibile realismo dal quale gran parte dell’attuale classe politica si tiene ben distante, così come dimostrano le recentissime parole di fuoco a favore dei rimpatri pronunciate sia da esponenti del principale partito di governo che dall’opposizione, gli stessi che nel passato si trovarono d’accordo nella mancata soppressione dell’inutile reato di immigrazione clandestina.
Pippo Civati
Stefano Catone