Il mondo, o per lo meno quel pezzetto di esso che noi abbiamo l’egocentrismo di chiamare così, ha rivolto milioni di occhi attoniti e disperati verso Parigi, durante il tragico rogo di Notre-Dame del 15 aprile scorso. I maggiori network televisivi del mondo hanno raccontato in diretta l’incendio, lo hanno commentato nei minuti e nei giorni successivi, con ore e ore di collegamenti e di dibattiti. I maggiori leader del mondo si sono sentiti in dovere di intervenire, chi esprimendo il proprio cordoglio, chi offrendo il proprio aiuto, chi, come Trump, mettendosi a spiegare come gestire l’emergenza. Sui social si è scatenata la solita discussione senza capo né coda, che faceva eco al pessimo livello dei media tradizionali, e dal compagno del corso di judo che avete frequentato per sei mesi in terza elementare a vostra zia, tutti si sono sentiti di dire la loro, nella vostra timeline.
Si tratta di uno dei monumenti architettonici più importanti e più belli al mondo, quindi c’è poco da stupirsene.
Quello che lascia esterrefatti è il constatare, per l’ennesimo volta, quanto sia prossimo il confine di questo nostro naso oltre al quale non ne vogliamo sapere di guardare. Un naso che pare non sia in grado di sentire la puzza di bruciato che arriva dal Brasile, in particolare dal bacino del Rio delle Amazzoni.
Sono giorni e giorni che la foresta amazzonica brucia, a un ritmo dell’84% superiore a quello dell’anno scorso, secondo i dati satellitari, confermati dalla NASA, dell’istituto spaziale brasiliano, l’INPE. Immagini satellitari che mostrano lo stato più settentrionale della nazione sudamericana, il Roraima, interamente coperto di fumo, mentre il vicino Amazonas ha dichiarato lo stato di calamità.
Mi rendo conto che Conte, Salvini e Renzi ci abbiano offerto uno dei pezzi di avanspettacolo migliori degli ultimi anni, ma credo che notizie del genere meriterebbero non dico una diretta Mentana, ma quantomeno un po’ di attenzione, almeno la stessa che dedichiamo al compleanno di un vip o all’ultima bomba di calciomercato.
Stiamo parlando — come se non lo sapessimo — della più grande foresta pluviale del mondo, uno dei punti cardine del nostro ecosistema, che peraltro contribuisce sensibilmente al rallentamento del riscaldamento globale. E sta bruciando da oltre due mesi alla velocità di circa un ettaro al minuto, il che significa che solo dalla scorsa settimana è bruciata una superficie grande circa non quanto la sfortunata cattedrale, ma l’intera città di Parigi.
La commozione del mondo davanti al rogo di Notre-Dame ha portato a una gara di solidarietà tra i miliardari francesi e di buona parte dell’occidente, comprese diverse multinazionali, che hanno raccolto quasi 900 milioni di euro in poche ore, per garantirne una ricostruzione che ci auguriamo tutti avvenga al più presto e con ottimi risultati.
Sarà molto, molto più difficile e più lungo, se mai possibile, ricostruire quanto stiamo perdendo di foresta amazzonica. Forse non ci si può aspettare una gara di solidarietà tra miliardari, ma un gesto da parte loro sarebbe segno se non altro di un sano istinto di conservazione. Se credono che i loro enormi patrimoni li salveranno dallo sconvolgimento, si stanno illudendo.
E se abbiamo bisogno di un po’ di pepe, se vogliamo ci venga agitato davanti un bel drappo rosso — o, in questo caso, nero — ci basti ricordare, come fa da tempo Thais Bonini su questo sito, l’opera distruttiva del fascistissimo presidente brasiliano Jair Bolsonaro — che gode ovviamente della stima imperitura e forse dell’invidia di Salvini — che dopo aver incoraggiato la distruzione della foresta per far largo allo “sviluppo”, dopo aver minacciato le popolazioni indigene che si oppongono alla devastazione di casa loro (a proposito di sovranità), in questi giorni ha prima negato la realtà dei roghi, arrivando anche a licenziare il presidente dell’INPE, per poi dichiarare che la colpa degli incendi è probabilmente delle ONG di sinistra che vogliono screditarlo. Nel frattempo, tutti gli esperti dicono che gli incendi in questione sono opera dell’uomo. Che ne dite, vale la pena parlarne? Noi di Possibile lo facciamo da un po’, per ora in perfetta solitudine anche in quella sinistra che dovrebbe fare dell’internazionalismo la sua bandiera (non ce ne vogliano i rossobruni).
Come ha detto qualche settimana fa Giuseppe Civati, il butterfly effect, il celebre concetto secondo il quale il battito d’ali di una farfalla può influenzare gli uragani all’altro capo del mondo, rischiamo di notarlo davvero solo quando la farfalla le ali non le batterà più, o magari quando finirà bruciata. Forse solo allora ci renderemo conto che quanto avviene, ad esempio, anche all’altro capo dell’Atlantico, conta. Eccome. Forse solo allora ci renderemo conto che l’emergenza climatica, e tutto ciò che vi è connesso, va affrontata come la minaccia globale alla nostra esistenza che rappresenta. Subito.
Ancora non la sentite, la puzza di bruciato? Sicuri?