Tito Boeri è stato parecchio esplicito, lo scorso 4 Luglio, alla presentazione della Relazione Annuale dell’INPS: il reddito di inclusione è un “passo in avanti rispetto alle tante misure parziali introdotte negli ultimi anni (dal SIA all’ASDI, dalla social card, alla carta acquisti), ma è ancora una misura basata su condizioni categoriali arbitrarie: presenza in famiglia di un componente minore oppure di una persona con disabilità, di una donna in gravidanza o di un disoccupato con più di 55 anni. Queste condizioni riducono la spesa ma possono finire per escludere molte persone bisognose di aiuto” (tratto dalla Relazione del Presidente, XVI Relazione Annuale INPS, 4 Luglio 2017).
Il Reddito di inclusione parte zoppo: invece di includere, esclude. Esclude dal beneficio dell’erogazione in denaro poiché — molto semplicemente — le risorse previste non sono sufficienti. La dotazione per il 2018 è pari a 1,7 miliardi, appena sufficiente a distribuire una integrazione al reddito per 660 mila famiglie (quelle in stato di povertà assoluta sono 1,5 milioni e coinvolgono 4,5 milioni di persone) che rientrano nei requisiti indicati nel decreto attuativo approvato ieri dal governo: “un valore dell’ISEE, in corso di validità, non superiore a 6.000 euro e un valore del patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore a 20.000 euro. In prima applicazione sono prioritariamente ammessi al REI i nuclei con figli minorenni o disabili, donne in stato di gravidanza o disoccupati ultra cinquantacinquenni” (comunicato stampa di Palazzo Chigi, 29.08.17).
Continua Boeri:
L’obiettivo, invece, deve essere quello di offrire un sostegno a tutti quelli che ne hanno davvero bisogno, il cui accesso è dunque condizionato unicamente ad una prova dei mezzi (accertamento di condizioni patrimoniali e reddituali al di sotto di soglia prestabilita) e la cui durata dipende dal comportamento del beneficiario (disponibilità a lavorare se in condizione di farlo, dichiarazione tempestiva di ogni altro reddito nel frattempo percepito).
L’importo del REI sembra anche troppo basso: non potrà eccedere i 340 euro al mese per una persona sola, quando la corrispondente soglia Istat di povertà assoluta, anche al Sud, è superiore ai 600 euro al mese.
Tuttavia, nel comunicato stampa del Governo, questa soglia è ulteriormente diminuita: 190 euro per una persona sola.
Facendo un rapido confronto, Possibile Frosinone comitato “A. Spinelli”, in collaborazione con altre forze politiche, si è fatto co-promotore di un’iniziativa di legge popolare per l’istituzione di un reddito minimo garantito nella regione Lazio. L’importo dell’assegno, in questo caso, non può essere inferiore a 500 euro.
Nel progetto pubblicato sul Manifesto di Possibile, l’assegno è calcolato su base familiare per la soglia annuale di povertà assoluta come individuata dall’ISTAT, pertanto nel caso di un individuo singolo senza reddito, l’assegno mensile sarebbe pari a 700 euro. E’ altresì erogato individualmente ad ogni componente maggiorenne, in modo inversamente proporzionale al proprio reddito. La misura prevista da Possibile costa 7 miliardi, poiché non esclude, non pone condizioni se non quelle di essere avviati ai percorsi di reinserimento professionale. Le coperture si ricavano dalla fiscalità generale, dalla revisione di spesa, dalla riforma della tassazione dei redditi di capitale (abbiamo fatto i conti e si può fare).
In poche parole, il REI è una misura di facciata, propedeutico alla prossima campagna elettorale e diretto a fronteggiare, nel sempiterno specchio riflesso, il reddito minimo universale in salsa 5 Stelle.
Altri aspetti importanti non sono sufficientemente dettagliati nel comunicato stampa. Mi riferisco a quel che succede in caso di rifiuto da parte della persona del nucleo familiare che dovrebbe essere identificata in seguito alla “valutazione del bisogno”, come beneficiario del “progetto personalizzato”, volto al superamento della condizione di povertà.
A nostro avviso, il progetto di inserimento dovrebbe essere costruito in modo da garantire un sistema di politiche attive incentrato sulla persona, sulle sue competenze, scelte e priorità. Limitarsi ad un sistema esclusivamente burocratico nel quale le politiche attive offrono percorsi non calibrati sulla persona e diventano la mera registrazione di colloqui in cui verificare cosa si è fatto per cercare lavoro, a “minacciare” (aspetto già incluso nella Naspi) di togliere sostegno se non si accetta un lavoro o non ci si presenta al centro per l’impiego a mettere un timbro, farà risuonare tutto il sistema come “coatto”.
La nostra sfida è quella di delineare un modello che metta al centro la persona e la sospinga nella direzione dello sviluppo della propria professionalità. Un modello semplice e razionale di sostegno con regole chiare e controlli seri.