[vc_row][vc_column][vc_column_text]Salma Hayek ha scritto al New York Times la propria esperienza con Weinstein ma la sua lettera non è solo l’ennesima denuncia su un sistema da scardinare (in tutti i settori, in tutti i Paesi) ma soprattutto è la risposta a molte delle domande strumentali che in queste settimane abbiamo dovuto leggere sulla stampa italiana. Per questo la riportiamo integralmente:
HARVEY WEINSTEIN era un appassionato cinefilo, un uomo capace di assumersi dei rischi, un mecenate di talenti cinematografici, un padre amorevole e un mostro.
Per anni, è stato il mio mostro.
Questo autunno, sono stata avvicinata da dei giornalisti, attraverso diversi canali, compresa la mia cara amica Ashley Judd, perché raccontassi un episodio della mia vita che, benché sia stato doloroso, pensavo di aver superato. Mi ero fatta da sola il lavaggio del cervello al punto di convincermi che fosse passata e che fossi sopravvissuta; ho sfuggito la responsabilità di parlarne con la scusa che c’erano già abbastanza persone intente a gettare luce sul mio mostro. Non pensavo che la mia voce fosse importante, né che avrebbe fatto qualche differenza.
In realtà, quello che stavo facendo era cercare di risparmiarmi la sfida di spiegare alcune cose ai miei cari: perché, quando ho occasionalmente detto di essere stata bullizzata, come molti altri, da Harvey, ho omesso alcuni dettagli. E perché, per così tanti anni, siamo stati in buoni rapporti con un uomo che mi aveva ferita così profondamente. Ero stata orgogliosa della mia capacità di perdonare, ma il semplice fatto che mi vergognassi di descrivere i dettagli di ciò che avevo perdonato mi ha fatto dubitare che quel capitolo della mia vita fosse veramente risolto.
Quando così tante donne si sono fatte avanti per descrivere quello che Harvey aveva fatto loro, ho dovuto affrontare la mia codardia e accettare con umiltà che la mia storia, per quanto importante per me, non era che una goccia in un oceano di dolore e confusione. Ho sentito che a quel punto a nessuno sarebbe importato del mio dolore — forse era un effetto di tutte le volte che mi è stato detto, in particolar modo da Harvey, che non ero nessuno.
Stiamo finalmente diventando consapevoli di un vizio che è stato socialmente accettato e ha insultato e umiliato milioni di ragazze come me, perché in ogni donna c’è una ragazza. Sono ispirata da coloro che hanno avuto il coraggio di denunciare, in particolar modo in una società che ha eletto un Presidente che è stato accusato di molestie sessuali e aggressione da dozzine di donne e che tutti abbiamo sentito affermare che un uomo di potere può fare ciò che vuole alle donne.
Bene, non più.
Nei quattordici anni in cui sono passata faticosamente da studentessa a star delle soap opera messicane a extra in alcuni film americani, ad avere un paio di colpi fortunati in “Desperado” e “Fool Rush in”, Harvey Weinstein era diventato il mago della nuova ondata di cinema che ha portato dei contenuti originali al grande pubblico. Nello stesso tempo, era inimmaginabile che un’attrice messicana potesse aspirare a un posto a Hollywood. E anche se avevo dimostrato che sbagliavano, non ero ancora nessuno.
Una delle forze che mi hanno dato la determinazione di inseguire la mia carriera era la storia di Frida Kahlo, che nell’età dell’oro dei pittori murali messicani faceva dei piccoli quadri intimistici che tutti guardavano dall’alto in basso. Ha avuto il coraggio di esprimere se stessa ignorando lo scetticismo. La mia più grande ambizione era quella di raccontare la sua storia. Divenne la mia missione, raccontare la vita di questa artista straordinaria e mostrare il mio nativo Messico in una luce che combattesse gli stereotipi.
L’impero di Weinstein, che era allora la Miramax, era diventato sinonimo di qualità, raffinatezza e audacia — una casa per artisti complessi e non conformisti. Era tutto ciò che Frida era ai miei occhi e tutto ciò che aspiravo ad essere.
Avevo iniziato un percorso per produrre il film con un’altra compagnia, ma lottai per riaverlo indietro e portarlo da Harvey.
Lo conoscevo un po’ tramite il mio rapporto con il regista Robert Rodriguez e la produttrice Elizabeth Avellan, che era allora sua moglie, con cui avevo fatto diversi film e che mi aveva preso sotto la sua ala. Tutto quello che sapevo di Harvey a quel tempo era che aveva un’intelligenza degna di nota, che era un amico leale e un padre di famiglia.
Sapendo quello che so ora, mi chiedo se non sia stata la mia amicizia con loro — e con Quentin Tarantino e George Clooney — a salvarmi dallo stupro.
L’accordo iniziale era che Harvey avrebbe pagato per i diritti del lavoro che io avevo già sviluppato. Come attrice, sarei stata pagata il minimo previsto dalla Screen Actors Guild più il 10%. Come produttrice, avrei ricevuto un riconoscimento ancora non definito, ma niente remunerazione, cosa che non era rara per una produttrice donna negli anni ‘90. Ha anche richiesto che firmassi un accordo per girare diversi altri film con la Miramax, cosa che pensavo avrebbe consolidato il mio status di attrice principale.
Non mi importava del denaro; ero così entusiasta di lavorare con lui e con quella compagnia. Nella mia ingenuità, pensavo che il mio sogno si fosse avverato. Harvey aveva dato un senso agli ultimi quattordici anni della mia vita. Aveva dato una possibilità a me — che non ero nessuno. Aveva detto sì.
Non sapevo che sarebbe venuto il mio turno di dire no.
No ad aprirgli la porta a tutte le ore della notte, albergo dopo albergo, location dopo location, in cui lui si presentava senza preavviso, compresa una location in cui stavo girando un film in cui non era nemmeno coinvolto.
No a farmi la doccia con lui.
No a lasciare che guardasse mentre mi facevo la doccia.
No a lasciare che mi facesse un massaggio.
No a lasciare che un suo amico nudo mi facesse un massaggio.
No a lasciare che mi praticasse del sesso orale.
No a spogliarmi con un’altra donna.
No, no, no, no, no …
E con ogni rifiuto arrivava la rabbia machiavellica di Harvey.
Non credo che ci fosse qualcosa che odiasse di più della parola “no”. L’assurdità delle sue pretese andava da una furiosa telefonata nel cuore della notte per chiedermi di licenziare il mio agente per una disputa che stava avendo con lui per un altro film con un altro cliente, al trascinarmi fisicamente via dal gala di apertura del Festival di Venezia, che era in onore di “Frida”, per farmi partecipare alla sua festa privata con lui e alcune donne che credevo essere modelle ma che, come sono venuta a sapere dopo, erano prostitute di lusso.
Le sue tattiche di convincimento andavano da essere dolcissimo fino a quella volta quando, in un attacco di rabbia, disse le terrificanti parole: “Ti ucciderò, non pensare che non possa farlo”.
Quando fu infine convinto che non mi sarei guadagnata il film nel modo che si aspettava, mi disse che aveva offerto il mio ruolo e il mio copione con i miei anni di ricerche a un’altra attrice.
Ai suoi occhi, non ero un’artista. Non ero nemmeno una persona. Ero una cosa: non un corpo umano, ma un corpo.
A quel punto, ho dovuto ricorrere agli avvocati, non per perseguire un caso di molestie sessuali, ma sostenendo la “malafede”, visto che avevo lavorato così tanto a un film che non aveva intenzione di fare o di rivendermi. Ho cercato di portarlo via alla sua compagnia.
Lui sostenne che la mia reputazione come attrice non fosse abbastanza grande e che fossi un’incompetente come produttrice, ma per uscirne legalmente pulito, da quello che ho capito, mi diede una lista impossibile di richieste con una breve scadenza:
1. Riscrivere il copione, senza ulteriore pagamento.
2. Trovare 10 milioni di dollari per finanziare il film.
3. Mettere sotto contratto un regista di serie A.
4. Assegnare quattro dei ruoli minori ad attori di fama.
Nello stupore generale e anche mio, ho rispettato i termini, grazie a un esercito di angeli che sono arrivati in mio soccorso, compreso Edward Norton, che ha meravigliosamente riscritto il copione diverse volte e non ne ha mai ricevuto nessun riconoscimento, e la mia amica Margaret Perenchio, una produttrice esordiente, che ha messo insieme il denaro. La brillante Julie Taymor che ha accettato di dirigerlo, e da allora è diventata la mia roccia. Per gli altri ruoli, ho ingaggiato i miei amici Antonio Banderas, Edward Norton e la mia adorata Ashley Judd. Ad oggi, non so come ho convinto Geoffrey Rush, che all’epoca conoscevo appena.
Ora Harvey Weinstein non era solo stato respinto, ma doveva anche fare un film che non voleva fare.
Ironicamente, una volta iniziate le riprese, le molestie sessuali cessarono ma la rabbia crebbe. Pagavamo il prezzo di averlo affrontato praticamente ogni giorno di riprese. Una volta, in un’intervista disse che io e Julie eravamo le più grandi rompipalle che avesse mai incontrato, cosa che prendemmo come un complimento.
A metà delle riprese, Harvey si presentò sul set e si lamentò del monociglio di Frida. Insisteva che eliminassi la zoppia e criticò la mia interpretazione. Quindi chiese a tutti nella stanza di uscire, tranne a me. Mi disse che l’unica cosa che avevo di buono era il mio sex appeal e che non ne stavo mettendo nel film. Quindi mi disse che avrebbe sospeso la produzione perché nessuno avrebbe voluto vedermi in quel ruolo.
Fu terribile perché, lo confesso, immersa nella nebbia di una sorta di Sindrome di Stoccolma, volevo che mi vedesse come artista: non solo una brava attrice, ma anche qualcuno che potesse incarnare una storia affascinante e avesse la visione di raccontarla in modo originale.
Speravo mi riconoscesse come produttrice, che oltre a rispettare la sua lista di richieste aveva curato il copione e ottenuto il permesso di usare i dipinti. Avevo negoziato con il governo messicano, e con chiunque era stato necessario, per ottenere location che non erano mai state concesse in passato — comprese le case di Frida Kahlo e i murales del marito, Diego Rivera, tra le altre.
Ma tutto questo sembrava non avere valore. La sola cosa che aveva notato era che nel film non ero sexy. Mi aveva fatto dubitare di me come attrice, ma non è mai riuscito a farmi pensare che non valesse la pena di fare di fare il film.
Mi offrì una sola opzione per continuare. Mi avrebbe lasciato finire il film se avessi accettato di fare una scena di sesso con un’altra donna. Pretese la completa nudità frontale.
Aveva continuamente chiesto più pelle, più sesso. Una volta, Julie Taymor lo aveva convinto ad accontentarsi di un tango che finisse con un bacio invece che con l’amplesso che voleva farci filmare tra il personaggio di Tina Modotti, interpretato da Ashley Judd, e Frida.
Ma questa volta, mi era chiaro che non mi avrebbe mai lasciato finire quel film senza avere la sua fantasia, in un modo o nell’altro. Non c’era spazio per la negoziazione.
Ho dovuto dire sì. A quel punto, così tanti anni della mia vita erano andati in quel film. Erano cinque settimane che stavamo filmando, e io avevo convinto così tante persone piene di talento a partecipare. Come potevo lasciare che il loro magnifico lavoro venisse sprecato?
Avevo chiesto così tanti favori, che sentivo un’enorme pressione a rispettare le consegne e un profondo senso di gratitudine per tutti quelli che mi avevano creduto e seguito in questa follia. Così accettai di fare quella scena senza senso.
Sono arrivata sul set il giorno in cui avremmo girato la scena che credevo avrebbe salvato il film. E per la prima e ultima volta nella mia carriera, ho avuto un crollo nervoso: il mio corpo ha iniziato a tremare incontrollabilmente, avevo il fiato corto e ho iniziato a piangere e piangere, incapace di smettere, come se stessi vomitando lacrime.
Siccome nessuno sapeva nulla della situazione tra me e Harvey, furono tutti molto sorpresi del fatto che quella mattina dovessi forzarmi a quel modo. Non era perché sarei stata nuda con un’altra donna. Era perché sarei stata nuda con lei per Harvey Weinstein. Ma allora non glielo potevo dire.
La mia mente aveva capito che dovevo farlo, ma il mio corpo non smetteva di piangere e avere le convulsioni. A quel punto, cominciai a vomitare mentre un intero set paralizzato aspettava di iniziare a filmare. Ho dovuto prendere un tranquillante, che alla fine fece smettere il pianto ma peggiorò i conati di vomito. Come potete immaginare, non era affatto sexy, ma fu l’unico modo in cui riuscii a portare a termine la scena.
Quando le riprese del film arrivarono alla fine, ero così emotivamente distrutta che dovetti prendere le distanze durante la postproduzione.
Quando Harvey vide il montaggio del film, disse che non era abbastanza buono per le sale e che lo avrebbe fatto uscire direttamente in cassetta.
Questa volta Julie dovette fronteggiarlo senza di me e lo convinse a farlo uscire in un cinema di New York se lo avessimo sottoposto al test del pubblico, passandolo con almeno un punteggio di 80.
Meno del 10% dei film raggiunge quel punteggio alla prima proiezione.
Non andai al test. Aspettai ansiosamente di avere notizie. Il film totalizzò un punteggio di 85.
Di nuovo, sentii la rabbia di Harvey. Nella galleria del cinema dopo la proiezione, gridò contro Julie. Appallottolò uno dei cartoncini del punteggio e glielo lanciò contro. Le rimbalzò sul naso. Il suo compagno, il compositore Elliot Goldenthal, si intromise, e Harvey lo minacciò fisicamente.
Una volta che si calmò, trovai la forza di chiamare Harvey per chiedergli di mandare il film anche in un cinema di Los Angeles, per un totale di due cinema. E senza grande sforzo, me lo concesse. Devo dire che a volte era gentile, divertente e spiritoso — e questo era parte del problema: non sapevi mai quale Harvey ti saresti trovata di fronte.
Mesi dopo, nell’ottobre del 2002, questo film, sulla mia eroina e la mia ispirazione — questa artista messicana che non era mai stata davvero considerata in vita, con la sua zoppia e il suo monociglio, questo film che Harvey non aveva mai voluto fare, gli diede un successo al botteghino che nessuno avrebbe potuto prevedere, e nonostante la mancanza di supporto da parte sua, aggiunse sei nomination agli Oscar alla sua collezione, compresa quella per Migliore Attrice.
Anche se “Frida” alla fine gli fruttò due Oscar, non vidi comunque alcuna gioia. Non mi offrì mai più un ruolo importante in un film. Gli altri film che fui obbligata a girare per via del mio accordo con la Miramax erano tutti in ruoli minori.
Anni dopo, quando incappai in lui a un evento, mi prese da parte e mi disse che aveva smesso di fumare e che aveva avuto un attacco di cuore. Disse che si era innamorato e aveva sposato Georgina Chapman, e che era un uomo diverso. Per finire, mi disse: “Hai fatto un buon lavoro con Frida; abbiamo fatto un buon film”.
Gli credetti. Harvey non poteva sapere quanto quelle parole significassero per me. Non poteva nemmeno sapere quanto male mi avesse fatto. Non avevo mai mostrato ad Harvey quanto fossi terrorizzata da lui. Quando lo vedevo in pubblico, sorridevo e cercavo di ricordare le cose buone di lui, dicendomi che ero stata in guerra e avevo vinto.
Ma perché così tante di noi, in quanto artiste donne, devono andare in guerra per raccontare le nostre storie quando abbiamo così tanto da offrire? Perché dobbiamo lottare con le unghie e con i denti per mantenere la nostra dignità?
Penso che sia perché noi, in quanto donne, siamo state svalutate artisticamente a livelli indecenti, al punto che l’industria cinematografica ha smesso di fare lo sforzo di capire che cosa il pubblico femminile voglia vedere e quali storie vogliamo raccontare.
Secondo uno studio recente, tra il 2007 e il 2016, solo il 4% dei registi erano donne e l’80% di loro hanno avuto la possibilità di fare un solo film. Nel 2016 un altro studio ha scoperto che solo il 27% delle parole pronunciate nei film più importanti era pronunciato da donne. E la gente si chiede perché non avete ascoltato le nostre voci prima. Penso che la statistica si spiega da sola — le nostre voci non sono benvenute.
Finché non ci sarà parità nel nostro campo, con uomini e donne che godono dello stesso peso in ogni suo aspetto, la nostra comunità continuerà a essere terreno fertile per i predatori.
Sono grata per tutti coloro che stanno ascoltando le nostre esperienze. Spero che aggiungere la mia voce al coro di coloro che stanno finalmente denunciando getti luce sul perché sia così difficile e sul perché molte di noi abbiamo aspettato così a lungo. Gli uomini molestano perché possono farlo. Le donne stanno parlando oggi perché, in questa nuova era, finalmente possiamo farlo.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]