[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1491483110612{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]Ogni traccia lasciata in mare scompare, per la stessa natura dell’acqua. Ogni onda cancella la precedente. Ogni oggetto viene sospinto, o viene risucchiato. Ecco perché la disciplina del diritto internazionale marittimo è tra i più antichi sforzi del legislatore, uno sforzo dominato nei secoli dal principio della “libertà dei mari”, secondo il quale «il singolo Stato non può impedire e neanche soltanto intralciare l’utilizzazione degli spazi marittimi da parte degli altri Stati, o meglio da parte delle navi che battono bandiera di altri Stati». Una libertà che, però, «incontra il limite che è proprio di ogni regime di libertà e che consiste nel rispetto della pari libertà altrui»[1].
Cosa dice il diritto marittimo internazionale
Il tentativo di disciplinare lo spazio marittimo trova perciò, e da sempre, notevoli difficoltà e si è così stratificato in una serie di norme nazionali, internazionali e consuetudinarie. Una svolta decisiva avvenne dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la nascita della International Maritime Organization (IMO), agenzia specializzata delle Nazioni Unite che attualmente conta 172 Stati aderenti.
Tra le più importanti convenzioni internazionali figura senza dubbio la Convenzione di Montego Bay (conosciuta anche come UNCLOS, Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata nel 1982). Questa ci aiuta nel definire alcuni concetti fondamentali, a partire dai limiti marittimi che si estendono a partire dalla costa e che segnano, con l’allontanarsi dalla stessa, il progressivo venir meno della sovranità statale. Anche nella fascia più vicina alla costa, quella delle cosiddette “acque territoriali”, esiste un diritto di passaggio inoffensivo da parte delle navi straniere, «sia per traversarlo, sia per entrare nelle acque interne, sia per prendere il largo provenendo da queste, e purché il passaggio sia “continuo e rapido”. Il passaggio è inoffensivo […] “finché non reca pregiudizio alla pace, al buon ordine o alla sicurezza dello Stato costiero”»[2].
Come dicevamo in precedenza, il diritto marittimo conta su un ampia base di fonti e quindi di stratificazioni. Ecco perché possiamo rifarci anche ad altre convenzioni per capire la disciplina del soccorso in mare, e in particolare alla Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) e alla Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR) e ai loro successivi emendamenti. Alcuni di questi ultimi integrano e dettagliano il più generale obbligo di soccorso in mare sancito, ad esempio, sia nella Convenzione SOLAS («Il comandante di una nave in navigazione che riceve un segnale da qualsiasi provenienza indicante che una nave o un aereo o loro natanti superstiti si trovano in pericolo, è obbligato a recarsi a tutta velocità all’assistenza delle persone in pericolo») che dalla Convenzione UNCLOS («Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa»).
Le successive stratificazioni, raccolte sul sito della IMO, vengono così spiegate dalla stessa organizzazione, con particolare riferimento ai migranti: «Le persone in pericolo in mare dovrebbero ricevere tutta l’assistenza possibile da altre navi nelle immediate vicinanze, inclusi comandanti, equipaggi, governi costieri e autorità di terra e da parte di tutti gli attori coinvolti nel settore dei trasporti marittimi, per essere salvate e fatte sbarcare prontamente in un luogo sicuro e per ricevere un equo trattamento una volta a terra. Finché l’esodo dei migranti continuerà in diverse parti del mondo e la necessità di prestare soccorso a persone diventerà più evidente, come nel caso di disperati rifugiati che viaggiano in condizioni di insicurezza, la IMO è impegnata nel cooperare in tutti i modi possibili per creare una cornice internazionale che incoraggi gli Stati e l’intero settore dei trasporti marittimi a fornire assistenza a persone in pericolo in mare e a portarle in un luogo sicuro, riducendo il rischio di perdere vite in incidenti marittimi».
In particolare, una circolare dell’IMO del 22 gennaio 2009 entra nel dettaglio per fornire un quadro normativo il più chiaro possibile, con particolare attenzione a quello che abbiamo chiamato “luogo sicuro” di approdo, individuando alcuni principi:
- Le operazioni volte ad accertare lo status giuridico delle persone tratte in salvo devono essere svolte una volta che queste sono state sbarcate in un luogo sicuro;
- Il comandante dovrebbe normalmente facilitare questo processo chiedendo nome, età, informazioni sulle condizioni mediche e sanitarie;
- Se una persona esprime il desiderio di chiedere asilo, deve essere data molta importanza alla sua sicurezza. Di conseguenza, nel comunicare questa informazione, la stessa non deve essere condivisa con il paese di origine o con altri paesi nei quali la sua sicurezza potrebbe essere messa a rischio.
Come avvengono i salvataggi
«Il compito di assicurare l’organizzazione efficiente dei servizi di ricerca e salvataggio nell’ambito dell’intera regione di interesse italiano sul mare, che si estende ben oltre i confini delle acque territoriali», si legge sul sito della Guardia Costiera, è affidato al «Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto», quindi alla Guardia Costiera stessa, che «assume le funzioni di IMRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Centre), Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo». La Guardia Costiera opera con mezzi propri e, allo stesso tempo, coordina le operazioni condotte da altre navi che dovessero trovarsi in mare, qualsiasi siano le ragioni della navigazione.
In questo contesto sta facendo molto discutere l’iniziativa intrapresa da alcune ONG che navigano nel Mediterraneo Centrale, muovendosi in particolar modo all’interno della zona SAR (Search and Rescue), aventi – di fatto – l’obiettivo esclusivo di compiere operazioni di salvataggio: Save the Children, Medici Senza Frontiere, Sos Mediterranée, Sea watch foundation, Sea eye, Life boat, Jugend Rettet e Proactiva open arms, per un totale di imbarcazioni che varia tra le otto e le tredici.
Prima di essere navi condotte da delle ONG, però, dobbiamo ricordare che sono semplicemente delle motonavi, quindi sottoposte come tutte le motonavi al diritto del mare. «I limiti d’azione nel mare cosiddetto territoriale (ossia entro le 12 miglia) – spiega l’avvocato Francesco Del Freo, esperto di diritto marittimo e penale transnazionale – sono quelli esplicitati anche dall’articolo 17 della convenzione di Montego Bay del 1982, sintetizzabili nel diritto di passaggio inoffensivo, ossia quel passaggio continuo e rapido inidoneo ad arrecare minaccia alla pace e alla sicurezza dello Stato costiero. Il comandante di nave è obbligato, ai sensi dell’articolo 1158 del Codice della navigazione, ad assistere navi o persone in pericolo, ovvero a tentare il salvataggio, giacché sia la Convenzione di Londra all’articolo 10 che il nostro Codice penale impongono tale obbligo, pena incorrere in un reato punito con la pena di reclusione dai tre agli otto anni qualora dall’omissione derivasse la morte. In zona SAR (Search and Rescue) ovviamente si deve operare sotto il controllo e seguendo le istruzioni del IMRCC di Roma e cioè della Guardia Costiera, autorità delegata dall’ordinamento al coordinamento delle operazioni di soccorso in mare».
«Diamo una mano – spiega Riccardo Gatti, direttore delle operazioni di bordo di Proactiva — a fare esattamente le stesse cose che la Guardia Costiera fa da venticinque anni su questa rotta e lo facciamo sotto il suo esclusivo e completo coordinamento». Le navi delle ONG comunicano la propria posizione, rotta e velocità a Roma ogni quattro durante il giorno e ogni due ore durante la notte. «Quando viene localizzato un target, solitamente da Roma, e non si sa ancora se sia un gommone o un barcone, l’IMRCC decide se inviare una imbarcazione o della Guardia Costiera o della ONG». Una volta attuate le operazioni di salvataggio, la nave carica di persone fa rotta verso l’Italia, sempre in maniera coordinata con la Guardia Costiera: il porto di sbarco viene deciso dal Ministero dell’Interno». Terminato lo sbarco, la nave torna nella zona SAR.
«Non ci addentriamo mai – prosegue Gatti – nelle acque territoriali libiche, a meno che non ci sia un naufragio: se c’è un naufragio il diritto marittimo obbliga qualsiasi imbarcazione a dirigersi sul luogo nella maniera più rapida possibile. E’ capitato perciò di addentrarci nelle acque libiche, ma a queste condizioni, e coordinati dalla Guardia Costiera di Tripoli, anche se esiste comunque una autorizzazione implicita e consuetudinaria». «Per quanto riguarda le acque libiche – aggiunge Del Freo – stiamo toccando un punto criticissimo, nel senso che la Libia ha concluso più memorandum per arginare o regimare la problematica, ma spesso questi memorandum sono resi inoperativi dagli stessi libici (si veda il caso recentemente sollevato dall’avvocatessa Azza Maghur rispetto al memorandum tra Italia e Libia)». Di conseguenza la domanda è: le ONG possono operare in questo modo? «Sì, possono, pur non essendo chiarissime le regole di ingaggio, rifacendosi alle convenzioni internazionali e al coordinamento della Guardia Costiera italiana, e a condizione che vi sia la necessità di operare, e quindi a fronte del bisogno di soccorso e quindi una situazione di pericolo: in questo caso devono farlo. Non possono invece sostare in acque territoriali libiche dove il governo libico avesse sancito una sospensione del diritto di transito per ragioni di sicurezza».
Rifacendoci, quindi, anche alla normativa italiana, il Codice della Navigazione recita, agli articoli 69 e 70, che «L’autorità marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso e, quando non abbia a disposizione né possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso alle altre autorità che possano utilmente intervenire», nel caso, ordinando «che le navi che si trovano nel porto o nelle vicinanze siano messe a loro disposizione con i relativi equipaggi».
La questione dell’indagine della procura di Catania
La procura di Catania ha aperto da alcune settimane una indagine conoscitiva sull’operato delle ONG. Il procuratore Carmelo Zuccaro si è domandato, durante una recente seduta della Commissione Schengen, se sia «consentito a organizzazioni private sostituirsi a forze politiche e alla volontà delle Nazioni. Le Ong non inseguono profitti privati, ma si rendono responsabili della violazione dell’art. 12 della Bossi-Fini? Appena si verificherà uno di questi casi io aprirò un’inchiesta, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Perché si può dubitare del fatto che si sceglie sempre il porto d’approdo e si portano in Italia migranti che non dovrebbero arrivare». Secondo Zuccaro «la convenzione di Ginevra impone di portare le persone soccorse in mare nel porto più vicino, e questo non avviene». Le operazioni delle ONG renderebbero inoltre «inutili le indagini sui facilitatori delle organizzazioni criminali. Dobbiamo registrare una sorta di scacco che la presenza di Ong provoca all’attività di contrasto degli organizzatori del traffico di migranti». Infine, secondo Zuccaro, «la mafia non è interessata direttamente dal traffico di migranti, se non indirettamente e in maniera marginale nel caporalato, perché agisce dove ci sono i grandi flussi finanziari, come quelli per i centri di accoglienza».
La questione dei costi
«A bordo della Golfo Azzurro – spiega Gatti – ci sono quindici volontari come equipaggio più tre persone di equipaggio della Golfo Azzurro, quindi un totale di diciotto persone». L’affitto della Golfo Azzurro costa 1.200 euro al giorno. Nel 2016, fino al 30 settembre, la ONG ha raccolto contributi per 2,1 milioni di euro. Il 96% di questi provengono da donazioni private di oltre 16.500 persone e il 4% rimanente da organizzazioni e amministrazioni locali. Alla stessa data i costi sostenuti sono stati pari a 1,4 milioni di euro. Il 95% dei costi sono dovuti a azioni dirette di salvataggio e il rimanente 5% a spese organizzative e investimenti sulla comunicazione.
La questione del porto di approdo
Per quanto riguarda il porto di sbarco, sia Gatti che Del Freo sono d’accordo nel sostenere che molto più della vicinanza geografica conta la sicurezza che il luogo può garantire alle persone tratte in salvo, con una particolare attenzione alla condizione giuridica di queste ultime e in particolare alla possibilità che manifestino l’intenzione di richiedere asilo. Ecco perché sarebbe illegittimo riportare dei richiedenti asilo che scappano dalla Libia in Libia. Ma anche in Tunisia, ritenuta da entrambi i nostri interlocutori un porto non sicuro, come d’altra parte riporta anche la Farnesina, attraverso il sito Viaggiaresicuri.it: «Negli ultimi due anni, dopo gli attacchi terroristici del 2015 a danno di turisti occidentali nel Museo del Bardo a Tunisi e in una spiaggia di Sousse/Port El Kantaoui, le autorità tunisine hanno adottato nuove misure antiterroristiche nella capitale e nel resto del Paese. Le forze armate e di polizia presidiano i siti sensibili. Lo stato di emergenza decretato nel 2015 è stato prorogato in varie occasioni e da ultimo rinnovato fino al 16 maggio 2017. Le principali arterie stradali nel Paese e nella capitale sono soggette ad un’elevata sorveglianza, anche attraverso posti di blocco, da parte di personale in divisa ed in borghese al quale è opportuno prestare la massima collaborazione. Sono frequenti le operazioni di polizia finalizzate allo smantellamento di cellule terroristiche e alla requisizione di armi. Ciononostante la Tunisia resta esposta al rischio terrorismo». Un paese non esattamente sicuro per chi, magari, scappa dalla persecuzioni di cellule terroristiche in patria.
La questione della bandiera
Ogni imbarcazione che naviga deve necessariamente avere una “paternità”, intesa come appartenenza a uno Stato territoriale. Su questa appartenenza si innestano regimi legislativi e fiscali. Di conseguenza, dietro alla scelta di optare per paesi “esotici” ci sono ragioni di ordine fiscale e la volontà di tenersi lontani da legislazioni che potrebbero essere più stringenti.
La questione degli approdi e dei morti in mare
Nei primi tre mesi del 2017 sono approdate (Ministero dell’Interno) nel nostro paese 22.297 persone. Negli anni precedenti, a partire dal 2016, nello stesso periodo sono approdate 18.777, 10.165, 10.965 persone. Si registra perciò un incremento degli approdi su suolo italiano.
Negli stessi mesi, però, gli approdi su suolo europeo (UNHCR) sono stati 29.758 nel 2017, 171.132 nel 2016, 23.245 nel 2015 e 14513 nel 2014. A livello europeo registriamo un drastico calo nel 2017 rispetto al 2016, che riporta il dato prossimo a quello del 2015.
Più che un aumento straordinario degli approdi in Italia dovuto all’operatività delle ONG assistiamo a una riduzione a livello europeo che si associa a una rimodulazione dei flussi, per la quale non possiamo scordare l’accordo tra UE e Turchia per sigillare la rotta dalla Grecia.
Le statistiche ci raccontano anche dell’aumento nel numero dei morti: «certo, perché è aumentata l’attenzione, sono aumentati gli occhi – dichiara Gatti -. Prima dell’entrata in azione delle ONG non potevamo sapere con certezza quanti morti c’erano: da quando operiamo, tra Guardia Costiera e ONG siamo invece riusciti a intercettare tutti i target che hanno inviato richieste di soccorso, il che ovviamente non esclude morti». E d’altra parte, la traversata del Mediterraneo Centrale è molto più rischiosa che la traversata da Turchia a Grecia. Se Lesbo dista pochi chilometri dalle coste turche, Lampedusa dista circa 300 chilometri dalla Libia: un fortissimo richiamo alle politiche italiane e europee e alla necessità di costruire corridoi umanitari, al posto di muri fisici e politici.
[1] Conforti B., Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006
[2] Conforti B., Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]