Oltre la finestra mediatica, l’Italia che non si rassegna

È uscito il nuovo libro di Marco Boschini, sulla «rivoluzione che si fa uscendo di casa», che cambiando piccole cose si può cambiare tanto.

Del­le vol­te, a guar­dar den­tro alla fine­stra media­ti­ca che ci con­net­te quo­ti­dia­na­men­te al mon­do in vetri­na, mi sem­bra di vive­re come den­tro ad una gran­de bol­la tra­spa­ren­te. Che mi sepa­ra dal­le cose con­cre­te, e mi met­te nel­la con­di­zio­ne poco invi­dia­bi­le (secon­do una cer­ta logi­ca) del “pove­ro illuso”.

Come sareb­be infat­ti pos­si­bi­le con­ti­nua­re a par­la­re di buo­ne pra­ti­che, cer­car­le e rac­con­tar­le da oltre un decen­nio, men­tre tut­to intor­no sem­bra venir giù un inte­ro pez­zo di mon­ta­gna in un tem­po che è il tem­po del con­ti­nuo affan­no, del­le cri­si sovrap­po­ste, del­le tra­ge­die annun­cia­te a reti unificate…?

Ma il pun­to di cesu­ra, cre­do, è pro­prio que­sto. Che basta get­ta­re lo sguar­do oltre quel­la fine­stra, per accor­ger­si facil­men­te che il pae­sag­gio intor­no a noi è (anche) altra cosa.
Che dav­ve­ro e per for­tu­na esi­ste un’altra Ita­lia in costru­zio­ne, come un len­to ma inar­re­sta­bi­le can­tie­re in dive­ni­re. Fat­to di cose con­cre­te, di con­ta­mi­na­zio­ni, di espe­rien­ze loca­li e tra­sver­sa­li che avven­go­no den­tro e fuo­ri le isti­tu­zio­ni per mano di (a vol­te) visio­na­ri e sogna­to­ri (i pove­ri illu­si di cui sopra), ma anche di inge­gne­ri e pro­fes­so­ri uni­ver­si­ta­ri, ope­rai e arti­gia­ni, stu­den­ti e coo­pe­ran­ti internazionali…

C’è di tut­to, e c’è il meglio, lì fuo­ri. Per­fet­ti­bi­le e imper­fet­to, come le cose che acca­do­no ogni gior­no alle per­so­ne nor­ma­li, come a chi fa poli­ti­ca met­ten­do al cen­tro del­la pro­pria azio­ne il bene comu­ne che è sem­pre e comun­que l’orizzonte a cui ten­de­re, costi quel che costi.
Ed è vero ed è bel­lo che sia così, che come sug­ge­ri­to nel sot­to­ti­to­lo di que­sto nuo­vo lavo­ro (“Le pan­chi­ne ribel­li”, EMI 2016 — www.emi.it) basta poco per cam­bia­re tut­to. Come nel caso del­la comu­ni­tà di Castel del Giu­di­ce (IS) in gra­do di tra­sfor­ma­re pro­ble­mi appa­ren­te­men­te insu­pe­ra­bi­li (abban­do­no resi­den­ti; chiu­su­ra pre­si­di pub­bli­ci, ter­re­ni ed edi­fi­ci in disu­so) in oppor­tu­ni­tà. O nel caso di Arva­ia, cen­ti­na­ia di fami­glie che alle por­te di Bolo­gna si met­to­no in gio­co per sot­trar­si dal ricat­to dei cen­tri com­mer­cia­li e far da sé nel­la pro­du­zio­ne di ciò che si mangia.
In que­sto libro ho mes­so pez­zi di sto­rie in cui sono inciam­pa­to nell’ultimo anno. Ci sono den­tro le fac­ce e le paro­le e le espe­rien­ze del­le tan­te per­so­ne che ho visto all’opera. E c’è tut­ta la fazio­si­tà di un cro­ni­sta di par­te come il sot­to­scrit­to, che fa un tifo sfe­ga­ta­to e dichia­ra­to per que­sto pez­zo d’Italia che non va in tele­vi­sio­ne, ma che l’Italia la sta già cam­bian­do. Un gior­no per volta.

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Ma la gran­de par­te­ci­pa­zio­ne allo scio­pe­ro del 13 dicem­bre dimo­stra che la dimen­sio­ne col­let­ti­va del­la nostra lot­ta, del­le nostre riven­di­ca­zio­ni, non è perduta.