C’è un passaggio, nell’intervista di Corrado Formigli al fisico Carlo Rovelli del 9 marzo scorso, in cui per la prima volta, almeno in prima serata, emerge un concetto, ed emerge con difficoltà perché il giornalista a un certo punto si sente in dovere di dare anche le risposte invece di ascoltarle.
Ma emerge.
Da oltre un anno il modo in cui tutti noi affrontiamo l’invasione russa dell’Ucraina parte dal presupposto che c’è un aggressore, la Russia, e un aggredito, l’Ucraina.
Nessuno l’ha mai messo in dubbio, né è oggettivamente possibile farlo, essendo un dato, purtroppo, di solare evidenza.
Ma il concetto che interpone Rovelli in questa narrazione, che per noi sembra universale ma vale solo nella nostra “bolla” occidentale (circa un miliardo di persone, ci ricorda, mentre almeno altri sei miliardi non la pensano esattamente così), il sassolino nell’ingranaggio, è che la contrapposizione aggressore/aggredito non esaurisce la questione, anzi, da un certo punto di vista la distorce.
Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il diritto dovrebbe esserne consapevole.
Partiamo da un esempio.
Poniamo che due agricoltori discutano per la proprietà delle terre fra loro confinanti.
E poniamo che entrambi, a turno, spostino arbitrariamente i confini delle proprietà, e quindi coltivino la terra altrui o si vedano coltivare dall’altro la propria.
Poi un giorno uno dei due, che si trova in quel momento senza una porzione di terra che ritiene sua, decide di passare alle vie di fatto e picchia il vicino.
C’è un aggressore, c’è un aggredito.
Ora, il nostro ordinamento giuridico, nella cornice dello stato di diritto, prevede delle procedure che servono proprio a prevenire i conflitti.
Da un lato le sanzioni penali dovrebbero dissuadere dal compiere determinati atti, cioè, nell’esempio, aggredire, dall’altro il diritto civile pone a disposizione delle parti dei meccanismi di conciliazione, come la mediazione, e, ove non sia possibile raggiungere un accordo, il ricorso al giudizio di un soggetto terzo che dirime la questione.
Ora, seguendo l’esempio, l’aggressione e la disputa sui terreni degli agricoltori sono due questioni distinte.
Il comportamento dell’aggressore configura un reato, le lesioni personali volontarie, ma non influisce sulle questioni civilistiche, cioè a dire, il fatto di essere aggrediti non comporta automaticamente l’accoglimento delle proprie tesi nella determinazione dei confini fra i terreni contesi.
È una questione diversa e distinta, che segue vie diverse e deve essere decisa in separata sede.
Da una parte il giudice penale, che valuterà l’aggressione e condannerà l’aggressore, dall’altra il dialogo, la mediazione e da ultimo il giudizio civile, incruento, per determinare i confini.
Il diritto internazionale purtroppo è simile ma non uguale al diritto interno, perché, come è noto, interviene su base volontaria, i trattati, e ha dei meccanismi coercitivi molto limitati.
Ma per quanto dissimile, anche in diritto internazionale vale lo stesso principio generale, cioè chi aggredisce è dalla parte del torto e deve essere sanzionato per l’aggressione e per i crimini commessi (quanto ai crimini la regola vale anche per l’aggredito, perché l’aggressione non rappresenta un’esenzione), ma questo non significa automaticamente che tutte le questioni territoriali debbano essere decise a favore di chi è stato aggredito, o che diventi irrilevante che lo stesso aggredito sia stato a sua volta, seppur in misura più limitata (il conflitto a bassa intensità, come se per le vittime facesse differenza) aggressore.
Sono due piani diversi e il (sacrosanto) mandato di arresto emanato dalla Corte penale internazionale dell’Aia nei confronti di Putin, per il crimine di guerra di deportazione illegale bambini dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa, ne rappresenta la piena conferma.
Ed è proprio perché sono due piani diversi che è necessario fermare le armi, sanzionare l’aggressore, punire i crimini di guerra, e nello stesso tempo, però, dare corso ad un processo di pace che risolva le questioni territoriali e consenta agli stati e alle persone di convivere stabilmente, riconoscendo le reciproche ragioni e i reciproci torti.
Sono le basi del diritto e della convivenza, fra cittadini come fra popoli.
Invece in pochi mesi sembra sia stato buttato via tutto quel che avevamo faticosamente costruito dopo la seconda guerra mondiale, perché sta vincendo l’idea che solo la vittoria militare possa riparare i torti, che la guerra sia giustizia.
Siamo passati dal trattato istitutivo delle Nazioni Unite all’occhio per occhio di Hammurabi e della Bibbia, come se mai una volta nella storia moderna dell’umanità la pace si sia trovata con la guerra e non con un negoziato ed un trattato.
Tutti gli Stati si sono schierati, e in qualche modo partecipano al conflitto, quindi non c’è, oggi, un organismo terzo realmente funzionante che possa dirimere le questioni perché si è deciso di risolvere la cosa al di fuori dei trattati e delle organizzazioni.
Sarebbe bastato usarlo, quell’organismo terzo, invece di schierarsi.
Ecco, il primo passo sarebbe evitare di utilizzare unicamente, e quindi strumentalmente, perché non è esaustiva, la distinzione fra aggressore ed aggredito, che pure è evidente e non è in discussione, come unico metro di giudizio di una situazione più ampia, più complessa, più risalente nel tempo, che va risolta, se si vuole farlo, con l’apertura di un dialogo, fermando prima le armi.
Non è “pacifismo” più di quanto non sia pacifista l’art. 11 della nostra Costituzione, quando abbiamo deciso tutte e tutti insieme che ripudiavamo la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, che è esattamente il modo in cui viene utilizzata ora.
Ed è la via che traccia la seconda parte dello stesso art. 11, che consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, promuovendo e favorendo le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo, quando invece abbiamo smesso di farlo cercando di risolvere una controversia internazionale partecipando in modo indiretto, ma oggettivo, ad una guerra.
Certo, si potrebbe anche tacere ed aspettare (e si è tentati di farlo visto che ogni voce dissonante, in guerra, è per definizione il nemico) perché prima o poi arriveremo sempre lì, nessuno vincerà questa guerra, e lo sappiamo tutti, e prima o poi tutti si siederanno a un tavolo, giustificando nei modi più vari il loro comportamento precedente.
Ma quando muoiono le persone tacere non si può, non a lungo, non per sempre.