Sabato 16 gennaio il “New York Times” ha dedicato un articolo a una piccola città italiana, Ascoli Piceno, dove la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza è totalmente inapplicata: le donne che scelgono di abortire sono costrette a migrare.
Identica situazione a Jesi: gli obiettori di coscienza sono il 100 per cento del personale medico e paramedico. L’obiezione media in Italia raggiunge il 70 per cento, con punte fino all’82 per cento della Campania, al 90 per cento della Basilicata e al 93,3 per cento del Molise. Il 40 per cento dei reparti di ginecologia e ostetricia italiani non eroga il servizio tout court (obiezione di struttura).
I numeri dell’obiezione sono in costante crescita, e il turismo abortivo, in altre regioni o in altri Paesi (in Olanda, in Francia, in Spagna) spesso è un’esperienza obbligata: le lunghe liste d’attesa in Italia non consentono di rispettare il limite delle 12 settimane di gestazione previsto dalla legge.
A “Presadiretta” in onda domenica 17, abbiamo potuto vedere le donne in attesa di Interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) in coda fin dalle prime ore dell’alba negli squallidi seminterrati dell’ospedale San Camillo di Roma. Abbiamo ascoltato la testimonianza della napoletana Laura Fiore, che ha raccontato l’orrore del suo aborto terapeutico, denunciando l’abbandono e il maltrattamento da parte degli obiettori.
Di tutto questo dolore non c’è traccia nella relazione della ministra Lorenzin sull’attuazione della legge 194, che omette metodicamente di riportare i dati assoluti sull’obiezione, e secondo la quale la copertura del servizio è assicurata: ciò che è visibile perfino a New York a quanto pare non si osserva dalle finestre del ministero per la Salute.
Grande parte di questa massiccia obiezione è meramente opportunistica: se non obietti sei sgradito alle direzioni sanitarie e non fai carriera. I pochissimi non-obiettori — sempre meno e sempre più isolati, data la progressiva fuoriuscita per ragioni anagrafiche dei medici e delle mediche che hanno condiviso la lunga lotta delle donne per la legge — patiscono ingiusti carichi di lavoro, rischiando il burnout, oltre alla mancata gratificazione professionale.
Per garantire l’Ivg gli ospedali sono spesso costretti a ricorrere alle prestazioni dei “gettonisti”, con aggravio della spesa sanitaria, e a richiamare in servizio i pensionati, specie nei periodi di ferie.
Si sta inoltre ingenerando un vero e proprio business dell’aborto: nelle strutture private convenzionate l’obiezione è poco significativa, basta che paghi. Il DRG per interruzione volontaria della gravidanza ammonta a una cifra tra i 1100 e 1600 euro, sempre a carico della casse della sanità pubblica.
In Francia tutti gli ospedali sono tenuti a erogare il servizio di Ivg, ed è recentemente stato istituito un numero verde di informazione e prenotazione.
In Svezia l’obiezione di coscienza non esiste: se vuoi fare il ginecologo devi accettare di praticare anche l’Ivg.
In Italia rischiamo invece di tornare a una situazione pre-194, con un ricorso sempre più massiccio all’aborto clandestino: secondo la relazione Lorenzin, si registrano attualmente circa 20 mila casi l’anno (5 mila riguardano le straniere). Ma si tratta di un dato ampiamente sottostimato.
Molte giovani donne non sono nemmeno a conoscenza della possibilità di interrompere la gravidanza in gratuità e in sicurezza, e si “arrangiano”, come capitava prima della legge, con mammane chirurgiche o chimiche: l’abortion kit si acquista agevolmente online, con il rischio di essere perseguite penalmente (l’aborto resta reato fuori dalle strutture pubbliche o convenzionate) e soprattutto con grave pericolo per la propria salute. Nelle ostetricie è in costante aumento il numero degli “aborti spontanei”, che secondo i dati dello stesso ministero sarebbero cresciuti del 40 per cento negli ultimi 20 anni: almeno un terzo di questi aborti sarebbe attribuibile al “fai da te”. Cresce inoltre il ricorso alle procedure d’urgenza nei pronti soccorsi.
Prova ulteriore del crescente ricorso alla clandestinità è il nostro basso tasso di abortività, tra i più bassi d’Europa: 9 interruzioni volontarie ogni 1000 donne. Avrebbe tutta l’aria una notizia positiva, e la ministra se ne rallegra. In altri Paesi il tasso di abortività è decisamente più elevato: 15.9 in Gran Bretagna, 18.1 in Francia, 20.13 in Svezia, 31.3 nella Federazione Russa.
Come si spiega questa differenza? Certamente non con un’aumentata natalità: siamo tra i Paesi meno prolifici del mondo, al punto più basso dall’Unità d’Italia a oggi. Né tanto meno con una migliore contraccezione: l’Italia è agli ultimi posti anche in questa classifica, davanti solo a Cipro, Romania, Lituania e Repubblica Ceca. L’unica chiave di lettura per quel 9–10 per cento che ci distanzia da altri Paesi europei è il ricorso all’aborto clandestino.
L’Europa ci ha già condannato (8 marzo 2014) «a causa dell’elevato numero degli obiettori di coscienza», stabilendo che esso «viola i diritti delle donne che alle condizioni prescritte dalla 194 del 1978 intendono interrompere la gravidanza». L’anno dopo, il 10 marzo 2015, il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza la cosiddetta risoluzione Tarabella, che riafferma che le donne devono «avere il controllo dei loro diritti sessuali e riproduttivi, segnatamente attraverso un accesso agevole alla contraccezione e all’aborto».
Eppure nessuno si muove. Né il Governo, che continua irresponsabilmente a negare l’esistenza del problema, né il Parlamento.
La drammaticità della situazione impone di intervenire in tempi stretti, pur tenendo conto dei limiti imposti dalla legislazione nazionale e internazionale.
Il diritto all’obiezione di coscienza infatti non può essere negato: lo stabilisce l’articolo 9 della legge 194. Anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo afferma che «gli stati membri sono tenuti a organizzare i loro servizi sanitari in modo da assicurare l’esercizio effettivo della libertà di coscienza dei professionisti della salute», ma chiarisce che ciò «non deve impedire ai pazienti di accedere a servizi a cui hanno legalmente diritto» (sentenza della Corte del 26 maggio 2011).
Come tenere insieme questi diritti contrapposti, bilanciando il legittimo esercizio dell’obiezione di coscienza con l’altrettanto legittimo ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza?
La soluzione può essere quella di garantire che almeno il 50 per cento del personale sanitario e ausiliario degli enti ospedalieri e delle case di cura autorizzate sia non obiettore. Ovvero che si consideri l’equilibrio tra personale obiettore e non obiettore al momento dell’assunzione, e attivando procedure di mobilità relative al personale che esercita il proprio diritto all’obiezione.
Oltre alla suddetta proposta di legge, si potrebbe prevedere l’istituzione di un numero verde dedicato, per info e prenotazioni delle Ivg, sul modello francese.
LEGGI LA PROPOSTA DI LEGGE CHE ABBIAMO ELABORATO
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