Non è incredibile, che Anna Maria Cancellieri nelle sue vesti di ministro della Giustizia si adoperi per far concedere i domiciliari a Giulia Ligresti, arrestata per falso in bilancio assieme a mezza famiglia. Non è incredibile che lo faccia in Italia, a seguito di una telefonata confidenziale della compagna del padre, e poi dello zio: e a ben vedere la vicenda assume colori che vanno oltre l’ingerenza nelle questioni procedurali, travalica l’appello generalizzato del presidente della Repubblica contro il sovraffollamento delle carceri, vìola i più elementari princìpi di uguaglianza (altro che “equità”, vocabolo spesso approssimato a sinistra) davanti alla legge. Non è incredibile, perché in questo Paese i conflitti d’interesse ‑che abbiamo spesso visto palesarsi in tutta la loro evidenza nei casi che riguardano Silvio Berlusconi, le sue aziende e l’azione politica- sono all’ordine del giorno a tutti i livelli più alti dell’amministrazione pubblica, delle imprese, dei partiti e delle fondazioni nominali, perfino della giurisdizione. Riguardano cioè un campo esteso ma occluso, in cui la grand commis e la dama dei salotti intrecciano un legame familiare e personale così forte da potersi disturbare nei casi peggiori: «Hai visto cosa è successo?», chiede l’una, fazzoletto di chiffon alla mano. «Cose dell’altro mondo, ci penso io», fa l’altra, addentando un pasticcino. Non è incredibile, perché in Italia le cose sono sempre andate così. E così, diciamo noi, non dovranno più andare.
Vogliamo pensare che coloro i quali in queste ore stanno giustificando, anche negli editoriali da sinistra, l’intervento ad personam di Anna Maria Cancellieri, siano dell’opinione che quest’ultimo sia stato solo il primo passo, casualmente compiuto a pro di una indagata eccellente, e che magari presto si succederanno analoghe soluzioni per chiunque, italiano o straniero, ricco o povero, versi nelle medesime condizioni di salute di Giulia Ligresti. Non saremo noi a negare che le motivazioni di un tale prodigarsi vadano invece ricercate anche, se non soprattutto, nei documentati rapporti di lungo corso che la famiglia Cancellieri-Peluso intrattiene con la precedente proprietà di Fondiaria Sai: se anche il figlio Piergiorgio ‑ora neodirettore finanziario di Telecom- è stato liquidato dall’azienda nel settembre 2012 con una buonuscita di 3.6 milioni di euro, le cronache di questi giorni riportano come egli si sia interessato ancora alle vicende societarie e giudiziarie del gruppo. «Quello che ho fatto per Giulia Ligresti l’ho fatto in decine di altri casi, tutti documentabili», dice la ministro ai quotidiani: «Non c’è una mail che arrivi alla mia segreteria cui non si risponda». Permetterà che non le si creda: o quantomeno tutti i parenti di detenuti che nelle celle stanno stretti, vessati, si ammalano e deperiscono possono sentirsi autorizzati a sperare in un trattamento telefonico analogo.
La legge è uguale per tutti, ma evidentemente la rubrica telefonica no. Non dovrebbe accadere che una ministro della Repubblica dal pedigree di alta servitrice dello Stato si prodighi automaticamente in seguito a una segnalazione privata e preferenziale di una famiglia molto potente e chiacchierata nei tribunali già dagli anni Novanta. Non dovrebbe, perché è accaduto più volte in questo Paese ‑dal caso Ruby al caso Cucchi, con cinquanta sfumature di gravità- che i santi in Paradiso (e abbiamo visto quali santi, e per quali motivi siano canonizzati) godessero di un binario interdetto ai comuni mortali, mortali nel vero senso della parola. Non dovrebbe accadere nemmeno che Cancellieri resti al suo posto, dal momento che a un’altra ministro come Josefa Idem è stato intimato ‑giustamente- di dimettersi a seguito di una piccola vicenda fiscale, probabilmente meno grave rispetto alla pozzanghera nella quale la titolare del dicastero della Giustizia è andata a inzaccherarsi, solo pochi mesi dopo essere stata candidata da Mario Monti alla presidenza della Repubblica: immaginatela oggi al Quirinale, sarebbe molto imbarazzante arrampicarsi sugli specchi per doverla giustificare. Altro che impeachment alla genovese, se già oggi il rischio è quello del ripetersi di un secondo caso Alfano-Shalabayeva, con tutto quello che ha comportato in termini di fiducia dei cittadini verso le istituzioni: Anna Maria Cancellieri ‑lo ha detto ieri sera Giuseppe Civati intervenendo a Recanati- dovrebbe sentire l’urgenza di dimettersi da sola, prima ancora che le venga chiesto dalle forze politiche.
Già prima dell’estate, e a dire il vero anche negli anni precedenti, Giorgio Napolitano non ha mancato di osservare come tra i mali endemici del Paese vi sia l’ormai da tempo insostenibile situazione di sovraffollamento nei penitenziari italiani, tutti nessuno escluso, e la consustanziale ricerca di rimedi tardivi e provvisori. Da una parte i sostenitori dell’amnistia o dell’indulto immediato, dopo quello del 2006, per venire incontro ai pressanti richiami europei; dall’altra quanti, come Civati, ritengono che a simili misure si possa addivenire solo a valle, dopo che a monte si sia proceduto col depenalizzare reati introdotti per motivi politici ‑ad esempio abrogando la legge Bossi-Fini riguardo l’immigrazione clandestina, e la Fini-Giovanardi in tema di consumo di droghe leggere- a cui si aggiunga la progettazione di strutture nuove e più confortevoli, cominciando magari dal rivedere i meccanismi della carcerazione preventiva, oggi estesa oltre ogni legittima durata e motivazione, e dall’estensione dei provvedimenti alternativi alla custodia cautelare. In questo quadro, l’infortunio telefonico della massima dirigente della giustizia italiana rischia di inasprire oltre agli animi di chi è coinvolto anche le posizioni politiche contrapposte, e di non portare ad alcuna decisione positiva che contenga le sofferenze certificate da coloro che si trovano in stato di temporanea privazione della libertà personale. Siamo sicuri ‑e lo chiediamo al Partito Democratico, agli altri candidati alla sua segreteria- che non ci sia alcuna questione di opportunità politica da sollevare, rispetto alla permanenza di Anna Maria Cancellieri nell’esecutivo? O che invece ‑come sempre, l’abbiamo capito- la fragile stabilità di queste larghe intese obblighi a non spostare nemmeno uno dei bastoncini di shanghai che le tengono in piedi?