[vc_row][vc_column][vc_column_text]di Benedetta Rinaldi
L’emergenza sanitaria, lo sappiamo, ha messo in ginocchio le strutture ospedaliere del Paese. E a quanto pare, creato un alibi perfetto per provare a dare un colpo ben assestato al diritto di abortire, che già negli ospedali d’Italia non gode di grande approvazione viste le percentuali terrificanti di medici obiettori che si registrano da Nord a Sud.
Rendere l’aborto un percorso a ostacoli significa, in questo momento ancora più che in altri, condannare una donna a portare avanti una gravidanza non desiderata perché il rischio di rimbalzare da una struttura ospedaliera a un’altra oltre al termine consentito oggi dalla legge per ricorrere all’interruzione diventa più che una possibilità. E a pagarne le conseguenze sono quasi sempre quelle donne che già si trovano in situazioni di fragilità maggiore.
L’autodeterminazione delle donne non è un diritto che si possa sospendere per via di un’emergenza sanitaria nè per qualsiasi altro motivo. Non si tratta di un capriccio, di un “plus” o di una gentile concessione: si parla della vita di persone che hanno il diritto di scegliere, sempre.
Ricordiamo tra l’altro che l’interruzione di gravidanza potrebbe essere in questo momento garantita in particolare privilegiando il ricorso all’aborto farmacologico e adottando il regime ambulatoriale.
Per questo, Possibile ha aderito con convinzione all’appello promosso da Pro-choice Rete italiana contraccezione e aborto (Pro-choice RICA), Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’Applicazione legge 194 (LAIGA), l’Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto (AMICA) e l’Associazione Vita Di Donna ONLUS che hanno scritto una lettera alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e al Ministero della Salute e all’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) affinché siano adottate misure urgenti per garantire ad ogni donna, sull’intero territorio nazionale, l’accesso al servizio di interruzione volontaria di gravidanza (IVG).
Chiediamo con la società civile che le autorità competenti ascoltino la richiesta delle associazioni firmatarie della lettera e adottino al più presto le misure proposte, in linea con quanto già fatto da altri governi in Europa, primi tra tutti Francia e Gran Bretagna.
- Ammettere al trattamento le donne in gravidanza con amenorrea fino a 63 giorni (nove settimane), invece che fino a 49 giorni (sette settimane);
- Eliminare la raccomandazione del ricovero in regime ordinario dal momento della somministrazione del mifepristone al momento dell’espulsione;
- Introdurre il regime ambulatoriale (“at home” nella letteratura scientifica) che prevede un unico passaggio nell’ambulatorio ospedaliero o in consultorio, con l’assunzione del mifepristone e la somministrazione a domicilio delle prostaglandine, procedura già in uso nella maggior parte dei paesi europei;
- Ammettere una procedura totalmente da remoto, monitorizzata da servizi di telemedicina, come è già avvenuto in Francia e nel Gran Bretagna, in via transitoria, in situazione di particolare difficoltà e in relazione all’attuale stato di emergenza.
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