In un convegno a cui hanno partecipato alcuni esponenti della sinistra italiana, tra cui Bertinotti e Fassina, è stata diffusamente sostenuta la tesi secondo la quale il fallimento del modello socialdemocratico, incarnato dall’Ulivo a livello italiano, stia sostanzialmente nell’aver concorso alla costruzione di un’Europa liberista e autoritaria, ingessata e non modificabile, il cui simbolo fondante è l’euro. Per questo, con accenti diversi, hanno proposto di abbandonare quel modello. In nome di cosa non è chiaro.
Che la socialdemocrazia non stia affatto bene è abbastanza evidente. Interrogarsi sulle ragioni che ne hanno determinato la malattia è un esercizio tutt’altro che sterile, perché può offrire utili indicazioni di percorso.
Questa Unione europea, identificata con parametri percentuali e numerici, con l’accondiscendenza verso governi che mettono in discussione libertà e diritti ma non il modello economico di riferimento, incapace di trovare soluzioni efficaci condivise e vincolanti, è frutto di politiche di centro-destra, che sono state possibili a causa dell’abdicazione e della subalternità culturale della sinistra. Chiama direttamente in causa le larghe intese, portate alle estreme conseguenze, e quindi va ben oltre la logica del centrosinistra e dell’Ulivo.
È evidente a tutti che, così com’è, l’Unione europea non è più né sostenibile né difendibile, ma quello che non condividiamo è l’approdo.
Noi siamo convinti che ridefinire il modello di riferimento e i suoi meccanismi di funzionamento sia oggi doveroso per salvaguardare e rilanciare lo spirito di quel percorso di integrazione che, per oltre sessant’anni, ci ha garantito pace e prosperità. Se dovesse crollare questa impalcatura, per quanto fragile e incompiuta, cosa resterebbe in piedi? Governi nazionali in balìa di opinioni pubbliche impoverite, incattivite e impaurite di fronte all’emergere di sfide globali, e focolai di guerra alle porte dell’Europa, che rischiano di attivare un pericolosissimo effetto domino all’insegna della tensione. La fotografia dell’esistente non lascia ben sperare. Il rischio che tutto quello che ci ha tenuti insieme finora trovi una brusca e fatale battuta d’arresto è più che mai concreto.
È stato lo stesso fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi, a esprimersi con parole simili in un’intervista pubblicata quest’oggi. Preoccupato perché «già con i lunghi anni della Commissioni Barroso il potere si è spostato dagli organi comunitari ai Paesi», da «una Germania che nei Consigli europei detta la regola» senza esercitare una vera leadership, perché leadership vuol dire «rendersi conto dei problemi di tutti», dalla questione energetica e dalle «grandi reti che girano attorno al mondo e lo circondano, sono Google, sono Apple, Alibaba, e sono tutte americane e cinesi».
Al contrario, il gioco dello screditamento del sistema concorre solo ad esasperare quelle logiche nazionali che hanno finora impedito di trovare soluzioni politiche comuni a problemi complessi e di portata epocale; rende di difficile applicazione quella solidarietà che invece è necessaria e prevista dai Trattati; concede un ulteriore megafono alle sirene del populismo, il cui fine ultimo è chiudere le frontiere e non riconoscere i diritti.
Anche questo continuo attacco all’euro, simbolo dell’Europa matrigna dei numeri e delle percentuali, è ingiusto e pericoloso. Senza la costruzione europea, senza l’euro, i costi della crisi sarebbero stati e sarebbero ancora più drammatici per tutti.
Rincorrere le sirene della sovranità monetaria avrebbe conseguenze devastanti: prezzi alle stelle, mutui triplicati, inflazione senza freni, dazi e meno soldi in tasca. Peraltro, molte aziende potrebbero puntare tutto sulla svalutazione e rinunciare a spingere sui pedali dell’innovazione e della qualità produttiva, che sono le armi che hanno permesso all’export del nostro Paese di reggere l’urto della recessione. È questo che vogliamo? Possiamo assumerci la responsabilità di concorrere alla demolizione di un sistema che è imperfetto anche per responsabilità della sinistra?
Proporre oggi un non meglio specificato Piano B, senza un preventivo efficace impegno a favore del Piano A, rischia di essere un pericolosissimo azzardo proprio sulla pelle di quegli ultimi che la sinistra dovrebbe rappresentare.
Rilancio contro demolizione. Questo è il solco che ci divide.
L’orizzonte di Possibile, condiviso con altri soggetti europei, è innanzitutto un impegno per valorizzare quello che nei Trattati finora è rimasto sotto traccia e per inserire quello che finora è mancato. Per questo è di primaria importanza stimolare da subito un dibattito di livello continentale sulle scelte politiche prioritarie da attuare e richiamare direttamente la responsabilità dei Governi.
Con Podemos, Syriza e con i compagni della sinistra portoghese abbiamo la consapevolezza che un nuovo modello sarà praticabile solo ribaltando i rapporti di forza tra sinistra e destra, cioè liberando la sinistra dal suo immobilismo e dalla sua subalternità alla destra, ponendola nettamente fuori dalla logica autodistruttiva della grande coalizione con il centrodestra, a livello europeo, nazionale e locale.
Un processo da costruire con soggetti politici e sociali, ma soprattutto insieme ai cittadini, ai quali proporremo una Iniziativa delle cittadine e dei cittadini europei (Ice) sull’Europa sociale, riprendendo e andando oltre quella del New deal 4 Europe. Nelle prossime settimane Giuseppe Civati raggiungerà Elly Schlein a Bruxelles, in vista di un tour finalizzato ad aprire un confronto europeo – in tutti i sensi – su questa proposta.
Dovrebbero tenerlo bene a mente tutte le forze di sinistra in questi giorni in cui si decidono le strategie in vista delle elezioni amministrative. Con quale credibilità possono invocare la rivoluzione a livello europeo se in Italia, nelle Regioni e nei Comuni sono stati volentieri comprimari di un sistema ingessato sulle larghe intese?