Dall’estate 2013 la Commissione europea sta negoziando con gli Stati Uniti, un trattato per il commercio e la protezione degli investimenti, il TTIP, che se approvato darebbe vita alla più grande area di libero scambio della storia, comprendente i 50 Stati Uniti d’America e il 28 Stati dell’Unione Europea. I dettagli di tale accordo sono coperti da riservatezza, perché, affermano gli uomini delle istituzioni Ue e nazionali, troppa trasparenza complicherebbe la posizione negoziale degli europei. In Italia per il momento vi è stato un dibattito assai povero.
Una volta definito l’accordo il trattato dovrà essere votato dal Parlamento europeo e dal Consiglio UE, il secondo passaggio è quello più complicato, perché il veto di un solo paese dell’UE può fare saltare tutto. Obiettivo prioritario del trattato di libero scambio non è abbattere le barriere tariffarie (i dazi), ma le barriere regolamentari. Si vuol mettere in condizione le imprese europee e americane di “usare una sola catena di montaggio” per i prodotti destinati al mercato americano e per quelli destinati al mercato europeo.
I contestatori affermano che l’accordo che Bruxelles ha l’obiettivo di siglare azzererebbe la disciplina sulla tutela del consumatore, potrebbe impedire alle istituzioni ed ai tribunali degli Stati Europei di vietare alle imprese americane di compiere operazioni rischiose come la costruzione di centrali nucleari, potrebbe rimettere in discussione i compromessi raggiunti a fatica sulla tutela dell’ambiente o aggirare il voto con cui il parlamento europeo ha bocciato il trattato internazionale ACTA relativo alla lotta alla contraffazione.
La commissione uscente, guidata dal portoghese Barroso ha pubblicato diversi documenti in cui assicura che la tutela dell’ambiente, del consumatore e dei lavoratori non verranno messe in discussione e stima i benefici del trattato in un aumento del pil europeo di 120 miliardi entro il 2027.
Non solo i partiti socialdemocratici e progressisti, ma anche buona parte dei sindacati confidano in un buon esito delle trattative; sono convinti che la conclusione di un buon accordo possa essere una politica anti-crisi a costo zero. È interessante leggere le posizioni ufficiali della CGIL, un sindacato che in Italia è da molti considerato il “partito del no”, che pure ha aperto all’accordo di libero scambio sulla base della considerazione che occorre una risposta non convenzionale alla crisi, ma ha accusato la commissione di Barroso di aver diffuso note sulla sostenibilità del trattato e numeri sulla crescita del pil senza aver fatto studi ed analisi economiche. I documenti liberamente scaricabili dal sito della commissione non sembrano fugare i dubbi della CGIL.
La Commissione Juncker, che si sta insediando in questi giorni è più tiepida sul TTIP, e soprattutto sembra, a differenza del precedente collettivo, ostile alla clausola del trattato che prevede il diritto delle imprese estere, ma non di quelle nazionali e degli Stati membri, di ricorrere ad un collegio arbitrale, noto con l’acronimo ISDS, nel caso in cui si ritengano pregiudicate da una nuova normativa. I collegi arbitrali- ISDS esistono in moltissimi trattati per la tutela degli investimenti; un simile istituto fu per la prima volta previsto in un accordo tra la Germania ed il Pakistan del 1959.
Tutto è nato in Germania e tutto potrebbe morire in Germania, poiché proprio nel paese di Angela Merkel sono state levate forti critiche a tali collegi arbitrali. Il settimanale Die Zeit, i cui vertici affermano di avere a disposizione una bozza del trattato, ricorda che in forza di una clausola ISDS la società svedese Vattenfall, attiva nel settore dell’energia ha chiesto presso un collegio arbitrale di New York un risarcimento miliardario, ancora da quantificare, allo Stato tedesco. Secondo Die Zeit il vero problema di tale tipo di clausole non sono i risarcimenti miliardari, che pure gli Stati potrebbero essere chiamati a pagare, ma il fatto che il collegio arbitrale potrebbe divenire un’insolita ed insana sede dell’ultima frontiera del lobbying, ove le multinazionali usano la possibilità di chiedere un risarcimento per ottenere che vengano ammorbidite normative a loro ostili.
Il leader socialdemocratico e vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel ha affermato che è consapevole dell’importanza geo-strategica del trattato, ma se non verrà esclusa la possibilità per le imprese di ricorrere al tribunale arbitrale, la Germania porrà il veto sull’approvazione del trattato.
Ruolo non trascurabile ha la Commissaria al commercio, la popolare-liberale svedese Cecilia Malmström, già commissaria agli interni di Barroso, che si è espressa in modo abbastanza favorevole alla clausola ISDS. È significativo però che Juncker abbia attribuito la responsabilità dell’ISDS al vicepresidente della Commissione, il laburista olandese Frans Timmermans scavalcando Malmström. La nuova commissione sta prendendo tempo. Obiettivo dell’amministrazione americana è quello di siglare l’accordo prima delle elezioni presidenziali, non si esclude che il temporeggiare delle nuova commissione possa fare saltare tutto. A ciò si aggiunge l’opposizione della Cina e di importanti partner dell’UE come la Turchia.
Si noti che un trattato analogo al TTIP, il CETA, è stato concluso di recente con il Canada ed adesso deve essere approvato dal parlamento europeo. Il CETA ha una clausola relativa al collegio arbitrale, anche se il suo ruolo è stato limitato rispetto a quello che solitamente è nei trattati ed è stabilita la possibilità di ricorrere in appello, cosa non scontata.
Sarebbe ragionevole chiedersi quindi dov’è la politica italiana. Il governo Renzi è apparso assai contraddittorio, il premier ed il ministro Guidi hanno infatti sottolineato che bisogna concludere un accordo il prima possibile ma non si concluderà un accordo ad ogni costo. Una delle poche posizioni nette è quella dell’europarlamentare Sergio Cofferati, che ritiene il TTIP debba essere bocciato perché non è nell’interesse degli europei.
L’opinione pubblica in Italia è poco informata e non sembra che il mondo dell’associazionismo, dei sindacati, delle organizzazioni ambientaliste, di tutela dei consumatori e delle piccole e medie imprese stia lavorando in Italia in modo particolarmente incisivo sulla questione. Negli ultimi dieci anni Bruxelles è stata la sede di significativi scontri tra il mondo del business e la società civile: il regolamento Reach, relativo ai prodotti chimici è stato approvato dopo essere stato emendato in modo significativo; la stessa sorte è toccata alla direttiva Bolkeistein, relativa alla libera prestazione di servizi nel mercato interno, infine il parlamento ha rigettato il già citato accordo ACTA. Su tali provvedimenti su opposti fronti, sono stati molto attivi gruppi che rappresentano gli interessi economici, gruppi che rappresentano la società civile e parlamentari francesi e tedeschi. Meno attivi sono stati gli italiani. Poi qualcuno anni dopo l’approvazione della direttiva Bolkestein ha lamentato che gli interessi italiani non erano stati tenuti in considerazione nella sua definizione.
La storia si ripete, poiché in Italia ben pochi si stanno interessando a questioni importanti come il fatto che determinate controversie possano essere affidate a corti arbitrali, e non ai tribunali. Il problema più grosso per l’Italia non è il TTIP, che potrebbe essere rigettato dal parlamento europeo, o nemmeno arrivare sui banchi del parlamento; il problema più grosso è la mancanza di un lobbying sociale attivo in Italia, capace di giocare un suo ruolo nelle più importanti partite della globalizzazione.
Serve una società civile europea ed anche quella italiana deve fare la sua parte.